Tutti, inconsapevolmente, nelle nostre relazioni mettiamo in atto quelli che Eric Berne chiamava “giochi psicologici”, dinamiche ripetitive e insoddisfacenti. Come trasformare i giochi in momenti evolutivi.
Si tende a pensare che giocare sia divertente e piacevole, in realtà questa stessa parola è stata usata negli anni Sessanta dallo psicologo Eric Berne per definire situazioni apparentemente molto poco giocose, ovvero quelle dinamiche ripetitive, stereotipate e insoddisfacenti che caratterizzano molte relazioni. A questi “giochi psicologici” Berne ha dedicato nel 1964 il suo più grande successo editoriale, il testo A che gioco giochiamo, in inglese Games people play, elaborando una teoria che è stata un caposaldo dell’Analisi Transazionale. ma che oggi è stata profondamente rivista.
Che cos’è un “gioco psicologico”
Ma che cos’è un “gioco psicologico” secondo Berne? Partiamo dalla formula da lui messa a punto: Gancio + Anello -> Risposta ->Scambio -> Incrocio -> Tornaconto.
Il gioco inizia con un invito (“gancio”), che è la “mossa di ingaggio”; se l’altro lo coglie (agisce cioè da “anello”) la commedia comincia. Le mosse sono complementari e hanno un movente nascosto che conduce a un certo punto a uno scambio di ruoli (incrocio), che provoca confusione e smarrimento, e quindi al “tornaconto” finale. Il tornaconto è un sentimento noto e ripetitivo (che va dalla paura alla tristezza, all’impotenza, alla disperazione, alla collera, al trionfo maligno, alla sollecitudine, alla compassione), oppure un comportamento autolesivo – come ubriacarsi, avere una relazione extraconiugale o tentare il suicidio – che a quel punto viene giustificato.
Un esempio: un uomo seduce una donna disillusa sul genere maschile presentandosi come “principe azzurro” diverso dagli altri e seriamente intenzionato ad amarla (gancio), la donna inizialmente è scettica ma poi si lascia convincere e ne ricambia il sentimento affidandosi a lui (anello); nel momento in cui l’uomo sente il peso della responsabilità di un legame, fa un passo indietro (colpo di scena con incrocio): l’uomo si sentirà inadeguato e fallito, la donna coverà rabbia e risentimento (tornaconti). Entrambi rinunceranno per un po’ a “giocare” (farsi coinvolgere in una relazione amorosa) per poi ricominciare.
Il triangolo drammatico
Stephen Karpman nel 1968 ha rappresentato i giochi graficamente in modo molto efficace attraverso lo strumento del “triangolo drammatico”, ai cui vertici ci sono tre posizioni possibili: Persecutore, Salvatore, Vittima. Nel momento del “colpo di scena” i giocatori si spostano da un ruolo all’altro (nel caso dell’esempio, l’uomo Salvatore, percependosi improvvisamente inadeguato, precipita nel ruolo di Vittima, la donna da Vittima bisognosa che si appoggia all’uomo idealizzato ne diventa persecutrice). Il gioco termina in modo paralizzante per la comunicazione, rendendo impossibile qualsiasi accordo reciproco e consapevole.
Il motivo per cui la relazione si blocca e “fallisce” ogni volta è che entrambe le persone, nel momento in cui “entrano nel gioco”, perdono di autenticità, diventando una sorta di caricatura di se stessi, poiché ignorano una parte importante di sé o dell’altro. Il Salvatore evita di sentirsi debole e fragile e contemporaneamente considera di fatto debole e fragile l’altro, lasciando che questi entri nel ruolo di Vittima incapace. Il Persecutore evita di sentirsi Vittima (inadeguato, incapace) assumendo il ruolo di carnefice, e costringendo l’altro nel ruolo di Vittima. La Vittima svaluta sé stessa e le proprie capacità rispetto ai propri interlocutori. Assumendo una posizione qualsiasi del triangolo drammatico non è mai possibile raggiungere una relazione autentica, perché non si parte mai da una posizione di parità e reciprocità (la cosiddetta “okness”, la posizione esistenziale sana secondo Berne).
Perché si gioca
Ma perché si “gioca”? Si gioca perché si ha bisogno di entrare in relazione e il “gioco” sembra in quel momento il solo modo, per quanto distorto, di farlo. Ignorando parti importanti di sé (Salvatore e Persecutore ignorano le proprie inadeguatezze, la Vittima ignora le proprie competenze), si sceglie però una situazione di “comodo” che porta sì a costruire una relazione, ma una relazione che non è né autentica né reciproca, ma giusto quanto basta a sperimentare un’idea di legame, una pseudovicinanza emotiva che riempie in qualche modo l’esistenza, le conferisce un po’ di “senso”.
Le emozioni distorte e intense che concludono il gioco (rabbia vendicativa, senso di onnipotenza, fuga spaventata) sono una sorta di “premio di consolazione” che il giocatore fa in modo di ottenere quando teme che il partner abbandoni il gioco. Si potrebbe dire che il giocatore interrompe il gioco quando ha il sentore di una sconfitta, allo scopo di “vincere”, anche se ciò di cui stiamo parlando è una “vittoria di Pirro”: il guadagno è cioè nullo o minimo in rapporto alle energie messe in campo.
I giochi psicologici oggi
A più di mezzo secolo dalla pubblicazione di A che gioco giochiamo è in atto una profonda revisione della teoria. Berne considerava i giochi alla stregua di “manipolazioni” e “inganni”, e le parole che usava per definirli (esca, gancio, tornaconto, ma anche Vittima e Persecutore) avevano una chiara connotazione negativa. Oggi si ritiene che i giochi siano inevitabilmente presenti in ogni relazione, e che quindi non vadano condannati a priori. Anzitutto non tutti i giochi hanno un incrocio o un tornaconto negativo: quando il gioco trova un proprio equilibrio, il rapporto diventa prevedibile e “confortante”, soddisfacendo entrambi i membri della relazione, anche se in realtà provoca un’impasse e ostacola la crescita (è un tipo di relazione frequente, tra le altre cose, tra psicoterapeuta e paziente).
Ma anche i giochi che hanno un esito spiacevole non sono necessariamente da evitare. Ci sono sempre “buone ragioni” che spingono una persona a giocare. Alla base dei giochi ci sono spesso, per esempio, meccanismi di difesa “proiettivi”, che servono al giocatore a proteggere la propria immagine attribuendo all’altro ciò che pensa di se stesso. Per esempio, chi entra in una relazione nel ruolo di Persecutore o di Salvatore, proietta la sensazione di inadeguatezza sull’altro, sentendosi forte e capace, guadagnando così un po’ di autostima. Al momento dell’incrocio e del tornaconto, il senso di inadeguatezza torna dentro di sé, causando ansia e sensazioni spiacevoli, che in genere spingono prima o poi a riprendere a giocare. Chi sta nel ruolo di Vittima ottiene invece il vantaggio che siano gli altri a muoversi per lui, legittimandosi una posizione di passività e di resa. Posizione che nei momenti di difficoltà può essere l’unica che si riesce a ricoprire, evitando di sperimentare una ben più pericolosa solitudine.
In altre parole, i giochi hanno un ruolo protettivo, che andrebbe riconosciuto e rispettato più che smascherato. Smascherarlo potrebbe far sentire il giocatore peggio, spingendolo per esempio a rivolgere gli atteggiamenti persecutori esclusivamente verso se stesso, oppure aprendo la strada al ritiro sociale.
Quando il terapeuta entra in gioco
Se Berne suggeriva, come principale manovra terapeutica, quella di analizzare i giochi del paziente per “smascherarli”, come fossero unicamente negativi, la nuova visione dei giochi suggerisce di “prendersi il rischio di giocare”. Oggi insomma per il terapeuta si considera più opportuno “entrare nel gioco”, l’importante è mantenere la consapevolezza di ciò che sta accadendo (per certi aspetti questo passaggio ricorda quello avvenuto, in ambito psicoanalitico, dal terapeuta “neutrale” al terapeuta “relazionale”). Il terapeuta deve essere cioè disposto a “soffrire” la malattia del paziente, a sentirne la lotta. Non deve solo osservare e analizzare il gioco, ma viverlo e osservarlo contemporaneamente. L’impatto può essere potente, ma dà l’opportunità sia al paziente sia al terapeuta di accedere a parti perdute di sé.
Il gioco, cioè, non è tanto un meccanismo patologico, quanto un processo comunicativo, a cui il terapeuta non può e non deve sottrarsi, e in cui, accanto a qualcosa di “malato”, c’è sempre anche qualcosa di sano. Indica infatti un tentativo di avvicinamento, un’opportunità per rendere accessibile il proprio mondo interiore all’altro, benché il prezzo da pagare sia l’emergere delle parti vulnerabili di entrambi. Serve quindi un atto di coraggio: il terapeuta che accetta di “giocare” sa che non entrerà in contatto solo con la vulnerabilità del paziente ma anche con la propria. L’invito è insomma a fare uso di un’intuizione esperienziale (che è emozionale e corporea), in cui il terapeuta ha una doppia responsabilità: di partecipante e di osservatore. Per il successo terapeutico è quindi importante essere emozionalmente coinvolti e utilizzare i giochi come esperienze trasformative.
Ben vengano i giochi
In sostanza i giochi non vanno affatto analizzati ed eliminati ma piuttosto compresi (e per comprenderli è inevitabile entrarci) e trasformati. E anche se appaiono disfunzionali, non lo sono mai completamente: le interazioni che le persone mettono in atto attraverso i giochi sono tentativi di trovare soddisfazione ad antichi bisogni, e continuano a provare e riprovare perché la segreta speranza è che finiscano prima o poi in modo diverso, che sia cioè possibile trovare un modo sano di raggiungere lo scopo (potremmo dire l’intimità, l’attaccamento sicuro).
La visione negativa dei “giochi psicologici” è quindi oggi superata. Ma in fondo bastava partire dalla parola “gioco”, scelta da Berne per identificare questo tipo di relazione, per coglierne le potenzialità. Come diceva Winnicott, il gioco è fondamentale per lo sviluppo emozionale del bambino, delle sue capacità creative e per “cercare se stesso”. Anche i giochi psicologici descritti da Berne hanno in fondo queste caratteristiche.
Entrare nei giardini segreti
I giochi ripetitivi e quello evolutivi sono dunque due facce della stessa medaglia: sta alle persone decidere come giocare, e sta ai terapeuti aiutare i pazienti a trasformare i primi nei secondi. Il paziente “gioca” perché è il solo modo che conosce per avvicinarsi all’intimità, alle relazioni autentiche, anche se il più delle volte fallisce. La sfida posta al terapeuta è quella di entrare nel gioco, e di cercare di farlo finire diversamente. Ma, poiché si gioca in due, il processo trasformativo (l’esperienza emozionale correttiva), se avviene, riguarda entrambi.
Per restare nella metafora dei giochi, è come quando in un videogame, provando ripetutamente, a un certo punto si trova la chiave per “salire di livello”: si acquisiscono nuove competenze che rendono il gioco più ricco e complesso, con nuovi “giardini” da scoprire. A quel punto si può anche ricominciare a giocare, alla ricerca di un’evoluzione ulteriore. È il naturale processo della crescita, l’energia vitale che accompagna l’uomo, la forza della natura (physis) che crea continuamente cose nuove.
Scriveva Berne nel 1972: “Tutti gli uomini e tutte le donne hanno i loro giardini segreti, di cui controllano i cancelli per impedire l’invasione profanatrice della folla volgare. Si tratta delle immagini visualizzate di ciò che farebbero se potessero agire secondo i loro desideri. I fortunati riescono a trovare il momento, il luogo e la persona adatta, mentre gli altri debbono vagare pieni di desiderio fuori dalle loro mura”.
Marta Erba
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