Archivi categoria: neuroscienze

Perché abbiamo due emisferi

Uno psichiatra scozzese, Iain McGilchrist, formula un’ipotesi affascinante: l’emisfero cerebrale destro è connesso alla realtà, il sinistro la interpreta. Ma che accade se l’interprete prende il potere?

Perché il cervello è diviso in due? Perché non possediamo un unico groviglio sferico di neuroni interconnessi, bensì due emisferi distinti, collegati tra loro da un fascio di fibre  (il “corpo calloso”)? Può sembrare una domanda oziosa, ma non lo è. La tesi di Iain McGilchrist, psichiatra scozzese autore del libro Il padrone e il suo emissario (Feltrinelli), è che questa divisione è necessaria non tanto per una “divisione di compiti” – come si riteneva in passato – quanto per una “divisione di ruoli”. Per essere ciò che siamo abbiamo bisogno di entrambi gli emisferi, evitando che uno prevalga sull’altro. Cosa niente affatto facile perché, avverte McGilchrist, l’emisfero sinistro sta usurpando il potere al destro. Con conseguenze potenzialmente gravi.
Proviamo a capire perché.  

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La terapia del perdono

Quando si subisce un torto, l’istinto è vendicarsi. In realtà la strategia migliore per liberarsi dalle emozioni negative non è la vendetta ma il suo contrario: il perdono. 

Chi la fa l’aspetti. Sangue chiama sangue. Quando subiamo un torto, la percezione immediata è che abbiamo diritto a un risarcimento. Che l’unico modo per ristabilire l’equilibrio e ritrovare la pace sia la vendetta.
È solo negli ultimi decenni che la ricerca scientifica si è soffermata sul tema, scoprendo quello che la maggior parte delle religioni suggerisce da tempo: la strategia più efficace per reagire a un’offesa, per proteggere la nostra salute fisica e mentale, è esattamente quella opposta. È perdonare. Continua a leggere

Il ruolo chiave delle emozioni

Bistrattate per secoli, le emozioni oggi sono al centro della ricerca scientifica. L’intervista alla psicologa Lavinia Barone.

Ritenute un residuo irrazionale del comportamento animale e per questo snobbate per secoli dagli scienziati (con poche eccezioni, tra cui Charles Darwin), da qualche anno a questa parte le emozioni stanno vivendo un momento di auge nell’ambito della ricerca scientifica. L’intervista a Lavinia Barone, docente all’Università di Pavia, autrice e curatrice di vari libri sulle emozioni, ricercatrice nel campo dello sviluppo emotivo dei bambini e degli adolescenti e dei disturbi legati a una cattiva regolazione delle emozioni.   Continua a leggere

La teoria polivagale

Con la teoria polivagale, Stepehn Porges chiarisce il ruolo del sistema nervoso autonomo nei disturbi post-traumatici

teoria polivagaleIl cervello? Sopravvalutato. Tendiamo a pensare che la massa gelatinosa racchiusa nel nostro cranio sia una specie di burattinaio che muove i fili del resto del corpo. Invece anche il resto del corpo manovra il cervello con gli stessi fili. Come spiega  il neurofisiologo americano Stephen Porges, la comunicazione tra cervello e corpo è bidirezionale e reciproca. Attraverso il sistema nervoso autonomo, i nostri visceri (cuore, polmone, intestino…) controllano il nostro comportamento almeno quanto la nostra mente, se non di più.  È questo il succo della “teoria polivagale” che sta minando alle basi alcuni paradigmi della medicina.

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Intervista a Vittorio Gallese

Dalla simulazione incarnata alla neuroestetica. Le ricerche di Vittorio Gallese a vent’anni dalla scoperta dei neuroni specchio.

vittorio galleseAgli inizi degli anni ’90 un gruppo di ricercatori di Parma fece una scoperta che ebbe risonanza in tutto il mondo: mentre studiavano la corteccia motoria dei macachi, scoprirono che c’erano neuroni che si attivavano sia quando le scimmie compivano un’azione (come afferrare un oggetto) sia quando la vedevano eseguire da qualcun altro. Battezzarono quelle cellule “neuroni specchio”, inaugurando per le neuroscienze una nuova era (celebre fu la dichiarazione dello scienziato Vilayanur Ramachandran, che ebbe a dire: “I neuroni specchio saranno per la psicologia quello che il DNA è stato per la biologia”). Del team faceva parte anche Vittorio Gallese, forse il più versatile tra gli studiosi del gruppo parmense, che ha esplorato anche campi apparentemente lontani dalle neuroscienze, come l’arte e la psicologia.
Ecco che cosa mi ha detto durante una recente intervista.  Continua a leggere

La mente orientale

Mente orientale e mente occidentale sono diverse? La disciplina emergente delle “neuroscienze culturali” cerca di capire come la cultura di appartenenza condizioni lo sviluppo del cervello

mente orientale sararicciardelliChiariamo subito: non esiste una mente orientale e una occidentale. La mente è una sola. A essere diverse (sempre meno, tuttavia, a causa delle contaminazioni reciproche) sono la cultura orientale e quella occidentale, che possono influenzare lo sviluppo del cervello, notoriamente “plastico”.  Continua a leggere

La mindfulness

La “mindfulness meditation” (letteralmente “meditazione di consapevolezza”) è un programma che aiuta a gestire meglio la sofferenza fisica e psicologica.

mindfulnessQuando stanno male, gli occidentali soffrono più degli orientali: tendono ad autoaccusarsi e a rimuginare, alimentando così l’ansia e la depressione. Inoltre sono sempre preoccupati per quello che potrebbero perdere e insoddisfatti per quello che non hanno. Insomma: in Occidente, siamo nemici di noi stessi invece che nostri alleati.
Lo aveva capito, negli anni ’70, Jon Kabat-Zinn, biologo molecolare al MIT di Cambridge (Massachusetts). Era l’epoca della New Age, e la passione per l’Oriente aveva contagiato America ed Europa. Una moda passeggera, dicevano i colleghi diffidenti. Ma Kabat-Zinn non la pensava così: in particolare era colpito da alcune pratiche di meditazione buddista che sembravano facilitare il distacco dalle cose terrene, liberando dalla sofferenza.
Invece che considerare la spiritualità orientale incompatibile con la scienza occidentale, prese i concetti fondamentali del buddismo, ne riformulò il linguaggio religioso e costruì un protocollo terapeutico che chiamò “Mindfulness-Based Stress Reduction” (riduzione dello stress basata sulla consapevolezza). Introdusse quindi il protocollo in un ospedale del Massachusetts e ne verificò l’efficacia con un trial clinico e i criteri della Evidence Based Medicine. Era il 1979, e i risultati di quella felice integrazione tra oriente e occidente si apprezzano oggi con l’affermazione della “mindfulness”, una delle pratiche di origine orientale che gode di maggior credibilità nel mondo occidentale. Continua a leggere