Perché abbiamo due emisferi

Uno psichiatra scozzese, Iain McGilchrist, formula un’ipotesi affascinante: l’emisfero cerebrale destro è connesso alla realtà, il sinistro la interpreta. Ma che accade se l’interprete prende il potere?

Perché il cervello è diviso in due? Perché non possediamo un unico groviglio sferico di neuroni interconnessi, bensì due emisferi distinti, collegati tra loro da un fascio di fibre  (il “corpo calloso”)? Può sembrare una domanda oziosa, ma non lo è. La tesi di Iain McGilchrist, psichiatra scozzese autore del libro Il padrone e il suo emissario (Feltrinelli), è che questa divisione è necessaria non tanto per una “divisione di compiti” – come si riteneva in passato – quanto per una “divisione di ruoli”. Per essere ciò che siamo abbiamo bisogno di entrambi gli emisferi, evitando che uno prevalga sull’altro. Cosa niente affatto facile perché, avverte McGilchrist, l’emisfero sinistro sta usurpando il potere al destro. Con conseguenze potenzialmente gravi.
Proviamo a capire perché.  

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I giochi psicologici

Tutti, inconsapevolmente, nelle nostre relazioni mettiamo in atto quelli che Eric Berne chiamava “giochi psicologici”, dinamiche ripetitive e insoddisfacenti. Come trasformare i giochi in momenti evolutivi.

Si tende a pensare che giocare sia divertente e piacevole, in realtà questa stessa parola è stata usata negli anni Sessanta dallo psicologo Eric Berne per definire situazioni apparentemente molto poco giocose, ovvero quelle dinamiche ripetitive, stereotipate e insoddisfacenti che caratterizzano molte relazioni. A questi “giochi psicologici” Berne ha dedicato nel 1964 il suo più grande successo editoriale, il testo A che gioco giochiamo, in inglese Games people play, elaborando una teoria che è stata un caposaldo dell’Analisi Transazionale. ma che oggi è stata profondamente rivista. Continua a leggere

Di cosa parla il Libro Rosso di Jung

Un tentativo personale di offrire una chiave di lettura al Libro Rosso di Carl Jung, uno dei testi più impegnativi e densi della psicologia. 

Scritto tra il 1913 e il 1930, e pubblicato nel 2009, a mezzo secolo dalla morte del suo autore, il Libro Rosso è un testo imponente. E non solo per la sua mole, di difficile collocazione in una normale libreria, ma per l’enormità dei suoi contenuti. L’autore, lo psichiatra svizzero Carl Jung, in un momento particolarmente critico della sua vita, vi ha lasciato affiorare immagini e parole, senza tentare di controllarle, osservando – e dando modo a noi oggi di osservare – quel suo particolare stato espanso della coscienza. 
Qui vorrei provare a raccontare l’idea che mi sono fatta di quella sua esplorazione mentale, pur sapendo che la mia chiave di lettura non potrà che essere riduttiva, parziale, inadeguata, opinabile, forse anche fuorviante. E che inevitabilmente sarà condizionata dal mio stile di scrittura e di pensiero, oltre che dalla mia esperienza personale e professionale. Continua a leggere

Guarire dal trauma con l’EMDR

Scoperta nel 1987, l’EMDR è una tecnica sempre più utilizzata nella terapia dei disturbi di origine traumatica. Benché apparentemente semplice (consiste in una stimolazione oculare mentre la persona rievoca il trauma), l’EMDR è una procedura che richiede un certo grado di competenza ed esperienza

L’acronimo non è facile da memorizzare: EMDR sta per “Eye Movement Desensitization and Reprocessing”, ovvero “desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari”. La tecnica è stata introdotta una trentina di anni fa, e da allora il numero di terapeuti che la applicano è cresciuto a ritmi esponenziali (oggi sono diverse migliaia), così come gli studi scientifici che ne documentano l’efficacia. Eppure a molti genera ancora diffidenza, forse perché alcuni fasi della procedura appaiono, a una visione superficiale, poco comprensibili e quasi “magiche”: in uno dei momenti chiave della procedura, per esempio, il terapeuta chiede al paziente di muovere gli occhi a destra e a sinistra per seguire le sue dita. Continua a leggere

Il lavoro con le parti

A volte siamo sopraffatti da emozioni intense che fatichiamo a controllare: paura, rabbia, senso di impotenza. Il “lavoro con le parti” può aiutare a riconoscerne l’origine e a integrarle in modo efficace

“Mi contraddico? Certo che mi contraddico! Sono vasto, contengo moltitudini”. Così scriveva, a metà ’800, Walt Whitman. Con queste parole, il poeta visionario americano metteva in luce un fenomeno che riguarda tutti: conteniamo una moltitudine di “parti”, da cui derivano pensieri e comportamenti contraddittori; riconoscerle e integrarle è un passaggio necessario per la comprensione e la cura di noi stessi.
In psicoterapia questo processo (dapprima studiato nei casi più eclatanti e rari di disturbo dissociativo d’identità, in cui le parti danno luogo a “personalità multiple”) si traduce nel
lavoro con le parti, approfondito tra gli altri da Onno Van der Hart, Janina Fisher, Jim Knipe e, in Italia, Maria Zaccagnino e Manuela Spadoni Continua a leggere

La solitudine del narcisista

Arrogante, pieno di sé, manipolatore, spietato: il narcisista viene spesso descritto come un individuo da cui guardarsi, da tenere lontano. Questa descrizione non permette però di cogliere gli aspetti più nascosti del narcisismo, come l’alto grado di sofferenza e il profondo senso di solitudine.

Tra tutti i disturbi di personalità, il narcisismo è quello che più di ogni altro sfugge a una facile identificazione. Che cosa indica esattamente questo termine? Il troppo amore per sé? L’eccesso di autostima? L’egoismo? L’indifferenza? L’incapacità di sintonizzarsi con gli altri? Come sostiene Glen Gabbard, autore del libro Il disagio del narcisismo (Raffaello Cortina editore), il narcisismo è un bersaglio mobile. Non è così chiaro, stabile, facilmente riconoscibile: può spostarsi e modificarsi da un giorno all’altro nella stessa persona. E il confine tra un narcisismo “sano” e uno “patologico” è molto labile.

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Ansia: il male del secolo

L’ansia è diventata un’epidemia globale e colpisce soprattutto i più giovani: qualche indicazione per gestirla.

I dati del National Institute of Mental Health sono preoccupanti: soffrirebbe d’ansia quasi il 20 per cento delle persone, il 4 in forma grave, percentuali in linea con quelle europee e italiane. Che aumentano ancora se si considerano i più giovani: sono ansiose soprattutto le ragazze (quasi il 40 per cento) ma anche i maschi non scherzano (26 per cento). La colpa di questa epidemia sarebbe soprattutto dei cellulari e dei social. Esiste anzi una nuova forma di ansia che ha preso il nome di FOMO, acronimo per “fear of missing out”: la “paura di essere tagliati fuori” se non ci si collega al cellulare per essere aggiornati sugli ultimi eventi. Sempre più persone non sanno resistere all’impulso continuo di allungare la mano nella tasca o nella borsa per dare un’occhiata a facebook, whatsapp o instagram. E non è che soddisfando l’impulso l’ansia passa: in genere, anzi, peggiora a causa dell’invidia sociale, una forma particolare di rimuginio rancoroso e frustrato che colpisce chi osserva le vite (virtuali) degli altri considerandole migliori e più appaganti della propria. Continua a leggere

Se il capo è un narciso

Nelle aziende (e non solo) è difficile trovare persone realmente capaci nei ruoli di leadership. Come correre ai ripari nei casi di “leadership narcisistica”

Intelligente, autorevole, disponibile all’ascolto e in grado di valorizzare le idee dei dipendenti: è questo il capo dei sogni, che tutti vorrebbero incontrare ogni volta che varcano la porta del luogo di lavoro. Ma si tratta appunto di un sogno, che nella maggioranza dei casi si scontra con la dura realtà: nelle aziende e nelle organizzazioni, infatti, le leadership eccellenti sono più vicine all’eccezione che alla regola. È molto più frequente ritrovarsi un superiore borioso e arrogante, sentirsi un po’ come Fantozzi alle prese con il visconte Cobram, il “direttore totale” che maltrattava i dipendenti sottoponendoli a continue vessazioni e obbligandoli a compiacere ogni sua assurda richiesta. Continua a leggere

Intervista ad Angelique Del Rey

I sistemi di valutazione usati a scuola o sui luoghi di lavoro introducono una tirannia inedita, di cui diventiamo tutti inconsapevolmente schiavi. Il parere della filosofa francese Angelique Del Rey

La meritocrazia? Non è necessariamente un bene. Soprattutto se diventa il pretesto per alimentare il clima di competizione nelle scuole e sui posti di lavoro o per introdurre sistemi di valutazione che si dichiarano “oggettivi” ma che non possono esserlo. È quanto sostiene la filosofa francese Angelique Del Rey nel libro La tirannia della valutazione (editore Elèuthera). La Del Rey, che insegna in una scuola alla periferia di Parigi, è partita osservando gli effetti deleteri dei nuovi criteri valutativi sui suoi allievi. Rispecchiano, dice, una società che non si avvia affatto a diventare più efficiente e meritocratica, ma se mai più individualista, standardizzata e “malata”. L’abbiamo intervistata mentre era ospite al Festival della mente di Sarzana 2018. Continua a leggere

La terapia del perdono

Quando si subisce un torto, l’istinto è vendicarsi. In realtà la strategia migliore per liberarsi dalle emozioni negative non è la vendetta ma il suo contrario: il perdono. 

Chi la fa l’aspetti. Sangue chiama sangue. Quando subiamo un torto, la percezione immediata è che abbiamo diritto a un risarcimento. Che l’unico modo per ristabilire l’equilibrio e ritrovare la pace sia la vendetta.
È solo negli ultimi decenni che la ricerca scientifica si è soffermata sul tema, scoprendo quello che la maggior parte delle religioni suggerisce da tempo: la strategia più efficace per reagire a un’offesa, per proteggere la nostra salute fisica e mentale, è esattamente quella opposta. È perdonare. Continua a leggere