I sistemi di valutazione usati a scuola o sui luoghi di lavoro introducono una tirannia inedita, di cui diventiamo tutti inconsapevolmente schiavi. Il parere della filosofa francese Angelique Del Rey
La meritocrazia? Non è necessariamente un bene. Soprattutto se diventa il pretesto per alimentare il clima di competizione nelle scuole e sui posti di lavoro o per introdurre sistemi di valutazione che si dichiarano “oggettivi” ma che non possono esserlo. È quanto sostiene la filosofa francese Angelique Del Rey nel libro La tirannia della valutazione (editore Elèuthera). La Del Rey, che insegna in una scuola alla periferia di Parigi, è partita osservando gli effetti deleteri dei nuovi criteri valutativi sui suoi allievi. Rispecchiano, dice, una società che non si avvia affatto a diventare più efficiente e meritocratica, ma se mai più individualista, standardizzata e “malata”. L’abbiamo intervistata mentre era ospite al Festival della mente di Sarzana 2018.
Perché i nuovi criteri di valutazione introdotti nelle scuole, come le famose “prove INVALSI”, sono un pericolo?
“A partire dal 1998 sono stati promossi sistemi che valutano le “competenze”, pensati anche per confrontare i sistemi scolastici nei vari Paesi. L’intento sembra lodevole: valorizzare il “saper agire” e favorire, un domani, l’ingresso nel mondo del lavoro. Ma il risultato più evidente, finora, è l’aggravarsi dello spirito di competizione tra i ragazzi. E la perdita del buon senso.
Un esempio?
Un adolescente nella scuola in cui insegno aveva gravi problemi familiari e si era chiuso nel silenzio. Ma il “public speaking” è diventata una competenza fondamentale, quindi è stato spronato, in modo aggressivo e traumatico, a parlare di fronte a tutti.
Oggi sempre più ragazzi presentano problemi di ritiro sociale: si chiudono nelle loro stanze e non vogliono affrontare la vita. La ragione sono queste continue pressioni alla performance?
Non sono l’unica causa – penso per esempio al ruolo delle nuove tecnologie – ma certamente contribuiscono. Gli adolescenti non si sentono più in diritto di chiedersi che cosa vogliono davvero diventare. A 15 anni dicono che vogliono fare una certa professione perché permette di guadagnare tanto o avere successo, senza interrogarsi sui propri desideri. Oppure si sentono fin da subito esclusi dalla competizione, si eliminano da soli.
Ma perché?
Perché questi test hanno la pretesa di essere universali, scientifici: poiché non c’è l’occhio soggettivo dell’insegnante ma quello “oggettivo” del computer, danno la sensazione di una descrizione accurata della realtà, cosa non vera poiché nessun test può valutare la complessità di una persona. Pretendono di misurare ciò che non è misurabile, cioè la qualità, il talento.
In pratica, un tempo si poteva dare la colpa di un insuccesso scolastico all’insegnante, oggi non più: chi riesce bene nei test si sente “oggettivamente” bravo, chi non riesce si sente “oggettivamente” incapace…
Chi riesce ritiene di meritare il proprio successo, chi sbaglia si taglia fuori da solo, ritenendo di meritare il proprio fallimento. Questi nuovi criteri incoraggiano il narcisismo in chi fa meglio e il disprezzo di sé (e quindi, spesso, la depressione) in chi fa peggio.
Ma non dovrebbero promuovere la meritocrazia?
Se si perde il buon senso dell’esperienza e ci si affida a sistemi standardizzati, si ottiene solo una caricatura della meritocrazia. L’unica capacità che viene davvero valutata è quella di adattarsi al sistema di valutazione, di essere “come gli altri vogliono che tu sia”, rinunciando spesso alle parti di sé più originali e spontanee. Di fatto questi criteri premiano chi si uniforma e svalutano le differenze, che invece sono alla base del talento e della genialità. Ma soprattutto favoriscono un atteggiamento individualista: fin dalle elementari i bambini sono portati a pensare che devono competere per avere successo, mentre l’empatia e l’atteggiamento collaborativo vengono inibiti. La competizione diventa una forma mentis pervasiva che condiziona tutta la vita.
Che cosa dovrebbe fare, invece, la scuola?
Dovrebbe stimolare domande, sollecitare il pensiero divergente, accettare la complessità, l’imprevedibilità, l’incertezza, la singolarità. Dovrebbe valorizzare gli errori come strumenti necessari e inevitabili per la crescita, e dovrebbe individuare e valorizzare le diversità. E soprattutto dovrebbe stimolare meccanismi di cooperazione piuttosto che di competizione.
Che cosa avviene, invece, nei luoghi di lavoro?
Anche sul lavoro la valutazione delle competenze è diventata una questione chiave: impiegati e operai sono sottoposti a una pressione permanente. Sono invitati a essere flessibili, performanti, ad ampliare le proprie “skills”. Così, se un tempo il lavoratore era alienato perché trattato come una macchina che svolge un unico compito, oggi lo è perché è trattato come un computer riprogammabile a piacere: ci si aspetta che sia in grado di realizzare obiettivi diversi, spesso impossibili e contraddittori. E chi non fa di tutto per rimanere in corsa “merita” la disoccupazione, l’esclusione del sistema.
Ma chi ha successo merita davvero?
Questi criteri non valorizzano i più bravi ma i più adatti, i più utili. A salire in cima alla scala sociale, come dimostrano vari studi, non sono tanto i più capaci quanto i più competitivi, i più proiettati verso il successo personale, i più “narcisisti”. La società si sta ammalando.
Che cosa possiamo fare?
Dobbiamo ricordarci che siamo fatti anche e soprattutto di legami, e che le relazioni con gli altri sono importanti per costruire la nostra identità e per stare bene. E dobbiamo pretendere di essere interpellati, come cittadini, prima che vengano imposti cambiamenti così importanti nelle scuole o nei luoghi di lavoro. Non possiamo più permetterci di lasciare in mano le nostre vite agli economisti.
Marta Erba
articolo scritto per Donna Moderna