L’ansia è diventata un’epidemia globale e colpisce soprattutto i più giovani: qualche indicazione per gestirla.
I dati del National Institute of Mental Health sono preoccupanti: soffrirebbe d’ansia quasi il 20 per cento delle persone, il 4 in forma grave, percentuali in linea con quelle europee e italiane. Che aumentano ancora se si considerano i più giovani: sono ansiose soprattutto le ragazze (quasi il 40 per cento) ma anche i maschi non scherzano (26 per cento). La colpa di questa epidemia sarebbe soprattutto dei cellulari e dei social. Esiste anzi una nuova forma di ansia che ha preso il nome di FOMO, acronimo per “fear of missing out”: la “paura di essere tagliati fuori” se non ci si collega al cellulare per essere aggiornati sugli ultimi eventi. Sempre più persone non sanno resistere all’impulso continuo di allungare la mano nella tasca o nella borsa per dare un’occhiata a facebook, whatsapp o instagram. E non è che soddisfando l’impulso l’ansia passa: in genere, anzi, peggiora a causa dell’invidia sociale, una forma particolare di rimuginio rancoroso e frustrato che colpisce chi osserva le vite (virtuali) degli altri considerandole migliori e più appaganti della propria.
Una reazione sana
Chiariamo subito: l’ansia di per sé non è una malattia. È una reazione normale che serve a mobilitare tutte le nostre risorse di fronte a un pericolo o a una minaccia: diventiamo più vigili e concentrati, i muscoli si contraggono per prepararci all’azione, il cuore batte più forte, il respiro si fa più frequente. È la stessa emozione che provava l’uomo primitivo quando si trovava al cospetto di un leone o di un orso: la capacità di essere pronto a scappare a gambe levate gli ha spesso salvato la vita. Oggi più facilmente la sperimentiamo quando abbiamo un’importante scadenza di lavoro o un compito in classe: l’ansia non ci salva la vita, ma concentrazione e prontezza maggiori possono proteggerci da un licenziamento o da una bocciatura. Perfino l’”ansia dell’update”, l’impulso che ci spinge a collegarci continuamente al cellulare, ha una spiegazione evolutiva: l’uomo primitivo sempre aggiornato sulla situazione intorno a lui aveva maggiori possibilità di sopravvivenza, poiché sapeva dove spostarsi in caso di calamità naturali o dove reperire acqua e cibo nelle vicinanze.
Il problema nasce quando i sintomi dell’ansia non servono a proteggerci o a migliorare le nostre prestazioni, ma al contrario ci impediscono di affrontare situazioni a rischio bassissimo o inesistente. Quando palpitazioni, tachicardia, aumento della sudorazione, tremori, sensazione di soffocamento, nausea, vertigini, vampate di calore o anche un senso di distacco dalla realtà (nei casi più gravi) non ci fanno prendere sonno, oppure interferiscono con la nostra capacità di entrare in relazione con gli altri o compromettono le nostre performance scolastiche e lavorative, allora non si parla più di ansia ma di “disturbo d’ansia”.
Dall’ansia al panico
Per alcune persone l’ansia diventa uno stato permanente, che consuma e fa guardare al futuro con terrore: si parla allora di “disturbo d’ansia generalizzato”. In altri casi può sfociare in attacchi di panico: i sintomi ansiosi sono così accentuati che la persona crede di avere un infarto, oppure teme di perdere il controllo o di impazzire. La sensazione è così sgradevole e spaventosa che chi la prova una volta comincia a evitare tutte le situazioni che potrebbero scatenarla, innescando un circolo vizioso che fa sentire sempre più agitati e inadeguati. La ricerca dimostra che, se non trattati, questi disturbi possono condurre alla depressione oppure, a causa di uno stato di stress cronico, compromettere la salute (causando disturbi gastrointestinali, muscolo-scheletrici, cardiovascolari, ecc). Ci dice inoltre che la cura più efficace non sono i farmaci (gli ansiolitici si limitano ad alleviare i sintomi, e inoltre inducono dipendenza; gli antidepressivi possono aiutare a gestire il problema ma non lo risolvono): molto meglio un percorso psicoterapeutico che aiuti a individuare l’origine dell’ansia, a modificare gli schemi mentali che sono alla base dei sintomi e a migliorare la capacità di tollerare, affrontare e accettare le incertezze inevitabili della vita.
Stop ai pensieri automatici
Gli interventi di psicoterapia consistono soprattutto nell’individuare e correggere i pensieri automatici che portano a una valutazione errata della situazione. Per esempio è comune – e spesso considerato saggio – il ragionamento del tipo “Better Safe than Sorry”, che si potrebbe tradurre così: è meglio andare sul sicuro (safe) che fare qualcosa di cui ci si potrebbe pentire (sorry). Si tratta in realtà di un atteggiamento iperprudente che porta a sopravvalutare i rischi e a sottovalutare le proprie capacità di affrontarli, inducendo a evitare una seria di situazioni che non sono poi così pericolose e facendo sentire sempre più incapaci. Ci sono poi “schemi cognitivi disfunzionali” cioè ragionamenti scorretti, veri e propri errori logici, che favoriscono l’ansia. Per esempio le generalizzazioni: “mi va SEMPRE male”, “NESSUNO mi apprezza”, “TUTTI pensano che io sia stupido”. Oppure la tendenza a ingigantire l’importanza di un singolo episodio: “Sono un incapace perché non ho passato l’esame”. O ancora l’abitudine di concentrarsi sui propri punti deboli dimenticandosi i punti di forza. Infine, c’è il potente meccanismo della “catastrofizzazione”, cioè la tendenza a temere il peggio in ogni situazione: la stessa che porta a interpretare un sintomo banale come segnale di un disturbo gravissimo favorendo, per esempio, un attacco di panico.
Fallo male!
Di recente Olivia Remes, giovane ricercatrice all’Università di Cambridge, ha indicato quattro strategie a chi si sente bloccato dall’ansia. “Sapete qual è il miglior trucco per superare l’indecisione o il senso di inadeguatezza che impedisce di intraprendere una nuova esperienza o di iniziare un nuovo progetto? Semplice: farlo male” spiega Remes. Può sembrare paradossale ma, come diceva lo scrittore inglese G.K. Chesterton “Se una cosa merita di essere fatta, merita di essere fatta male la prima volta”. Spesso, invece, chi è ansioso si pone standard molto elevati, per non dire irraggiungibili, e passa ore e ore per decidere come e quando muoversi, procrastinando il momento dell’azione fino a paralizzarsi. Un circolo vizioso che alimenta l’ansia e la sensazione di non essere capaci. Molto meglio mettersi l’anima in pace e accettare il fatto che la prima volta che si affronta un compito ci si può anche permettere di essere maldestri. Anzi, non può che essere così. Un principio che aiuta a sbloccarsi e a perseguire i propri obiettivi, riconciliandosi con se stessi. Spesso poi, guardando indietro, si finisce per scoprire che non si è andati proprio malaccio. E anche se così fosse, c’è tutto il tempo per migliorare. “Imporci di ‘farlo male’ ci dà il coraggio di iniziare nuove cose, aggiunge un pizzico di divertimento e riduce la preoccupazione sui risultati: ci fa sentire liberi” sintetizza la ricercatrice.
Perdonati e aspetta
Il secondo trucco è quello di perdonarsi. Tipicamente la persona ansiosa si sente sempre giudicata, e interpreta ogni situazione sociale come una performance: la tensione allora la fa balbettare, sudare, arrossire, o la fa sentire sottosopra. Altro circolo vizioso: più si è critici verso se stessi, più i sintomi dell’ansia peggiorano. “Immaginate di avere un amico che puntualizza in continuazione i vostri errori e le vostre figuracce: probabilmente vi liberereste di lui il prima possibile” osserva la ricercatrice inglese. Invece le persone ansiose si riservano un trattamento che mai avrebbero verso gli altri, né d’altro canto accetterebbero da parte di qualcun altro. Utili per imparare a perdonarsi sono gli esercizi di mindfulness (derivati dalla meditazione buddista), attraverso cui ci si abitua a rendersi conto dell’impulso continuo a giudicarsi, e quindi a riportare l’attenzione al presente, a quello che si sta facendo: un recente studio del Massachusetts General Hospital, pubblicato su Psychiatry Research, dimostra che riducono i sintomi dell’ansia e rinforzano la resilienza, cioè la capacità di affrontare gli imprevisti con flessibilità.
Terza strategia suggerita da Olivia Remes: aspettare a preoccuparsi. “Se qualcosa va male, è inutile cominciare a rimuginare sull’accaduto. Chi rimugina, infatti, non elabora le ansie, le minacce e i propri fallimenti, ma si limita a crogiolarsi in essi in modo sterile, potenziandone l’importanza. Può essere vantaggioso, allora, posticipare la preoccupazione” suggerisce la ricercatrice. In genere accade che l’ansia cala, poiché non viene “nutrita” da pensieri e dubbi nell’arco di tutta la giornata.
Trova il senso
Ultimo trucco, dimostrato per esempio da uno studio dell’Università della Virginia pubblicato su Emotion nel 2013: fare in modo che la propria esistenza abbia uno scopo. “Quanto tempo della vostra giornata pensate a qualcun altro che non siate voi stessi? Se è poco o nullo, siete a rischio di un problema di salute mentale” avverte Olivia Remes. Connettersi mentalmente agli altri, spostando i riflettori da sé, è il modo migliore per guarire dall’ansia. “Le persone che pensano che non c’è niente da aspettarsi dalla vita non si sono ancora accorte che è la vita ad aspettarsi qualcosa da loro” diceva il neurologo austriaco Viktor Frankl. Occuparsi degli altri può voler dire prendersi cura di un bambino o di un parente anziano, impegnarsi nel volontariato o dedicarsi ad attività che possono dare un beneficio alle generazioni future. “Non è necessario che le persone a cui vi dedicate sappiano quello che avete fatto e che intendete fare per loro. L’importante è che lo sappiate voi” conclude la ricercatrice.
Marta Erba
Articolo scritto per Focus