Il lavoro con le parti

A volte siamo sopraffatti da emozioni intense che fatichiamo a controllare: paura, rabbia, senso di impotenza. Il “lavoro con le parti” può aiutare a riconoscerne l’origine e a integrarle in modo efficace

“Mi contraddico? Certo che mi contraddico! Sono vasto, contengo moltitudini”. Così scriveva, a metà ’800, Walt Whitman. Con queste parole, il poeta visionario americano metteva in luce un fenomeno che riguarda tutti: conteniamo una moltitudine di “parti”, da cui derivano pensieri e comportamenti contraddittori; riconoscerle e integrarle è un passaggio necessario per la comprensione e la cura di noi stessi.
In psicoterapia questo processo (dapprima studiato nei casi più eclatanti e rari di disturbo dissociativo d’identità, in cui le parti danno luogo a “personalità multiple”) si traduce nel
lavoro con le parti, approfondito tra gli altri da Onno Van der Hart, Janina Fisher, Jim Knipe e, in Italia, Maria Zaccagnino e Manuela Spadoni

Quando si formano le parti?
L’idea alla base del lavoro con le parti è che ogni bambino, quando si trova in una situazione di insicurezza che nessun adulto è in grado di riparare (perché nessun adulto è presente, o perché gli adulti presenti non riescono a intercettare la difficoltà in cui il bambino si trova, o perché gli adulti stessi sono la fonte di quel disagio) ha un’unica scelta per sopravvivere: disconoscere le proprie parti più vulnerabili e ferite. Quindi, con una parte di sé “continua ad andare avanti con la vita normale”, mentre le parti ferite rimangono come segregate all’interno, nascoste e inaccessibili. Secondo i teorici della dissociazione strutturale (come Onno Van der Harth), la “parte che va avanti con la vita normale” ha soprattutto a che fare con l’emisfero sinistro, la parte del cervello in cui ha sede il centro del linguaggio (è la parte che continua ad avere una narrativa di sé, che “se la racconta”) mentre le parti emotive connesse ai traumi e agli episodi disturbanti, orientate alla sopravvivenza fisica, sono localizzate nell’emisfero destro (e quindi “non hanno voce”). 

Un meccanismo utile
Questo fenomeno si chiama compartimentazione dissociativa e non è di per sé patologico. La capacità della nostra mente di scindersi in parti è anzi un’ottima strategia per sopravvivere alle situazioni traumatiche: invece che “disintegrarsi” (come avviene nello scompenso psicotico), è molto meglio dissociare alcune parti, segregarle, confinarle, in modo da poter andare avanti “facendo finta” che non esistano. Si tratta tuttavia di un sistema che alla lunga si rivela poco efficace e potenzialmente pericoloso. Infatti le parti traumatizzate, in presenza di determinati stimoli trigger (cioè situazioni che ricordano il trauma originario), irrompono nella nostra vita in modo soverchiante e incontrollato. Le riconosciamo perché sono sempre accompagnate da sensazioni fisiche potenti (un “buco in pancia”, un “nodo alla gola”, una “morsa allo stomaco”) e spesso anche da frasi negative che diciamo su noi stessi (“non merito”, “sono sbagliato”, “c’è qualcosa che non va in me”). Quando una di queste giovani parti emotive irrompe nella nostra vita, succede che ci identifichiamo profondamente con essa: non la riconosciamo cioè come una parte di noi, ma abbiamo la forte sensazione di essere quel bambino spaventato, arrabbiato o angosciato.

Primo passo: riconoscere le parti
Come si fa, dunque, a lavorare con le parti? Il primo passo è riconoscerle – dando loro un’età (l’età in cui è avvenuto il trauma), un aspetto, un’espressione del viso… – e imparare a guardarle con solidarietà, empatia e tenerezza – come si farebbe con un bambino – e non, come spesso avviene, con fastidio, astio o vergogna. 
Si tratta di usare la compartimentazione dissociativa in maniera consapevole e volontaria: invece che fondersi con le parti bambine dall’emotività soverchiante, la parte adulta è incoraggiata a separarsi. Un modo utile ad apprendere questa capacità è fare esercizi di mindfulness: la meditazione allena infatti a osservare la nostra mente senza identificarci con i nostri pensieri e le nostre emozioni.

Secondo passo: accoglierle e rispettarle
Per ripristinare un’integrità è dunque necessario prendere contatto con tutte le giovani parti i cui bisogni non sono stati soddisfatti durante l’infanzia o l’adolescenza. Tutte queste parti (comprese quelle autodistruttive) vanno accolte, ringraziate e rispettate: si sono infatti addossate le responsabilità in una situazione priva di via d’uscita e ci hanno permesso di “andare avanti”. Come sostiene Janina Fisher “vanno trattate come veterani di guerra che hanno combattuto per una nobile causa. Oggi non saremmo qui, vivi anche se sofferenti, pronti ad affrontare una psicoterapia, se ogni parte non avesse fatto bene il suo lavoro, se ognuna non ci avesse aiutato a sopravvivere”

Le parti emotive possono essere diverse e ciascuno di noi ha le proprie, ma le seguenti sono quelle che si riscontrano più spesso:

  • la parte attaccamento: è la parte bambina che vuole sentirsi amata e che è alla ricerca di sorrisi affettuosi e parole rassicuranti; è servita (e serve ancora) a richiamare il supporto degli altri.
  • la parte fuga: è la parte che fugge dalle emozioni soverchianti attraverso modalità che permettono di rendere queste emozioni più sopportabili, ma che si traducono spesso in comportamenti a rischio (dipendenze, disturbi alimentari), in procrastinazione o evitamenti (evitare di pensare, di arrabbiarsi, di parlare di un argomento). Questa parte è servita a tollerare e padroneggiare emozioni intense e disturbanti come la vergogna, la rabbia o la paura, fornendoci un senso di potere e di controllo, oppure permettendoci di trovare sollievo (grazie al rilascio di endorfine).
  • la parte congelamento: è una parte terrorizzata che cerca di passare inosservata immobilizzandosi nei movimenti e nella parola. Il processo coinvolto è quello biologicamente antico della morte apparente, mediato dal sistema vagale dorsale (come ben spiegato da Steven Porges nella teoria polivagale): se il “predatore” non mi vede o “mi crede morto” posso sperare di sopravvivere.
  • la parte sottomessa: è la parte che fa di tutto per compiacere, incapace di dire no, convinta di essere indegna e inadeguata, e che sia sempre colpa sua. A suo tempo è servita a evitare punizioni o a mantenere legami importanti per la sopravvivenza (vedi anche la spinta “compiaci!”). 
  • la parte attacco: è una parte ipervigile, controllante, giudicante e svalutante, carica di rabbia, talvolta rivolta contro di sé. È servita a regolare le emozioni e a proteggere le parti più piccole e vulnerabili, utilizzando modalità aggressive (spesso apprese durante il corso della vita da un genitore); se la rabbia è rivolta verso di sé, l’utilità può essere stata quella di rappresentare dentro di sé il genitore aggressivo allo scopo di controllarlo meglio e non venire ogni volta sopraffatti da un’aggressione imprevista; oppure all’opposto – in caso di genitori poco presenti o incapaci di fornire limiti e regole – è servita a costruire un genitore vicario (ma eccessivamente rigido e inflessibile, come può essere un genitore irreale, “inventato” da un bambino). 
  • la parte negazionista: è una parte che anestetizza, nega e minimizza. È un modo primitivo di difendersi dalla realtà: sopravvivo più facilmente se non sento niente e ridimensiono quello che è successo (con il rischio, però, di continuare a esporsi ai pericoli).
  • la parte idealizzante: è quella che continua a ritenere di aver avuto “genitori fantastici” per difendersi dall’odio nei loro confronti per quello che hanno o non hanno fatto (o per non riconoscere le loro gravi inadeguatezze). Oppure che si racconta di “essere una persona speciale” per difendersi dall’idea di non valere nulla (è la cosiddetta difesa narcisistica), o ancora che idealizza un partner violento o abusante (“in realtà mi ama, mi vuole bene”). Si tratta di una percezione distorta che associa un forte sentimento positivo a un’immagine (di sé o dell’altro) allo scopo di spegnere i vissuti traumatici.
  • la parte suicidaria: è la parte che ha pensieri di morte, che vuole morire e immagina modi per togliersi la vita. Perfino una parte del genere va accolta e rispettata: è infatti servita a coltivare un “piano B” che permettesse di tollerare emozioni dolorose e distruttive senza recare danno a sé e al proprio corpo. 

Più in generale si distinguono parti ferite (più piccole e vulnerabili) e parti protettive o “difese” (sono parti più grandi, spesso adolescenti, che si attivano ogni volta in cui sentono che le parti ferite sono in pericolo di ri-sperimentare il trauma; difendono le parti più piccole, ma lo fanno con modalità rigide e spesso controproducenti). 

Il lavoro con le difese
In genere, prima di lavorare con le parti vulnerabili, è bene lavorare con le parti protettive (o difese, un tempo chiamate anche “resistenze”), che si attivano per prevenire l’intrusione del materiale traumatico. Si tratta di risposte riflesse che, costruendo un muro, prevengono l’intrusione di materiale disturbante, portando sensazioni di sollievo.
Queste parti hanno protetto a lungo e bene le parti vulnerabili, ma sono un ostacolo alla terapia perché impediscono di accedere alle parti ferite. Il primo passo è quindi accogliere, comprendere, legittimare e integrare le parti protettive: quando sono state apprese, erano le uniche disponibili a difendere il paziente. Con le parti protettive e con le parti più vulnerabili si può negoziare, “venire a patti”: le prime accettano di allentare le difese, di “fare un passo indietro”, le seconde promettono di non farsi sopraffare, di non avere l’urgenza di dire tutto, di non “esporsi troppo”. 

La visualizzazione guidata
Si possono usare varie tecniche per entrare in relazioni con le parti: l’emdr, il tavolo delle parti, (si immagina un tavolo in cui vengono accolte le varie parti, libere di esprimersi, mentre la parte Adulta fa da osservatrice e mediatrice), la tecnica delle due sedie  (due parti vengono fatte dialogare mentre ci si sposta da una sedia all’altra), il disegno con matite colorate (per rappresentare le varie parti). L’obiettivo è stimolare la parte adulta, cioè il “padrone di casa” (la “parte che va avanti con la vita normale”) a osservare con curiosità le altre parti (“i coinquilini”). Come suggerisce Janina Fisher, la sfida è convincere la parte Adulta non solo ad assumere il ruolo di leader, ma anche a coltivare le qualità di compassione, curiosità, connessione, chiarezza, coraggio, calma e creatività. Spesso infatti l’Adulto prova fastidio o rifiuto verso le parti più piccole, sia quelle “ferite” sia quelle “protettive”. Per accoglierle è importante che l’Adulto prenda contatto col fatto che si tratta di parti bambine che a suo tempo sono state rifiutate o ignorate, ma che oggi meritano di essere viste e aiutate a crescere. 
In altre parole la parte adulta ha l’opportunità di diventare un guaritore, un consolatore. Dice Janina Fisher: “Per poter vivere una vita libera dalla paura, dalla rabbia e dalla vergogna, è importante accogliere le parti. Tutte devono sentirsi al sicuro, qualcuno deve prendersi cura di loro. Il terapeuta quindi non è il guaritore, ma piuttosto l’allenatore che supporta il capitano della squadra”.

L’obiettivo
Nelle situazioni in cui si “formano parti”, di base c’è sempre un problema di attaccamento, cioè qualcosa che non va come dovrebbe nella relazione tra il bambino e chi dovrebbe occuparsi di lui (per esempio situazioni di maltrattamento o di trascuratezza oppure la morte o la malattia di uno dei genitori). Il bambino, che è un individuo totalmente dipendente (molto più dipendente di qualsiasi altro cucciolo animale), ha la necessità di attaccarsi alla persona di riferimento, anche se non gli dà sicurezza o se gli induce malessere, e quindi è costretto a cedere a un compromesso: la realtà traumatica deve essere dissociata.
L’obiettivo del “lavoro con le parti”, come spiega Daniel Siegel (autore di La mente relazionale – neurobiologia dell’esperienza interpersonale), è l’attaccamento sicuro guadagnato. In altre parole: se durante l’infanzia ci sono state esperienze traumatiche e disturbanti che hanno compromesso l’attaccamento (e quindi la capacità di entrare in relazione con gli altri), non si è condannati a convivere con un perenne senso di insicurezza: è possibile riparare ai traumi subiti prendendoci cura delle nostre parti traumatizzate, restituendo loro quella sollecitudine, tenerezza e attenzione che a suo tempo non hanno avuto.

Per approfondire:

Un esempio divertente di “tavolo delle parti”, tratto dalla serie americana United States of Tara

La recensione di Undone (Amazon prime) con la descrizione della dissociazione strutturale della protagonista

Per specialisti: il testo più utile per il lavoro con le parti è  Guarire la frammentazione de sé di Janina Fisher

Marta Erba
©martaerba.it

Un pensiero su “Il lavoro con le parti

  1. Gabriella

    Molto,molto, interessante.E’ stato per me illuminante,esposto in modo così organico ed esauriente, mi ha aperto una strada verso la mia interiorità.

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