Con la teoria polivagale, Stepehn Porges chiarisce il ruolo del sistema nervoso autonomo nei disturbi post-traumatici
Il cervello? Sopravvalutato. Tendiamo a pensare che la massa gelatinosa racchiusa nel nostro cranio sia una specie di burattinaio che muove i fili del resto del corpo. Invece anche il resto del corpo manovra il cervello con gli stessi fili. Come spiega il neurofisiologo americano Stephen Porges, la comunicazione tra cervello e corpo è bidirezionale e reciproca. Attraverso il sistema nervoso autonomo, i nostri visceri (cuore, polmone, intestino…) controllano il nostro comportamento almeno quanto la nostra mente, se non di più. È questo il succo della “teoria polivagale” che sta minando alle basi alcuni paradigmi della medicina.
Neuroscienziati. Finora l’attenzione delle neuroscienze si è concentrata sulla parte più “nobile” del cervello, la corteccia, sede del pensiero e della consapevolezza. Qualche ricercatore più ardito, come Antonio Damasio o Jaak Panksepp, si è spinto un po’ più giù, a livello delle regioni limbiche e del tronco encefalico, luoghi in cui hanno sede le emozioni. Porges è andato oltre, verso la parte più “bassa” e viscerale, il “sistema nervoso autonomo” (connesso a organi come il cuore, i polmoni e l’apparato digerente), finora snobbato da tutti i colleghi: quello che regola lo stato fisiologico dell’organismo per garantirne la sopravvivenza e affrontare tutte quelle condizioni che etichettiamo come “stress”.
“Finora si diceva che il sistema nervoso autonomo fosse diviso in due sistemi antagonisti: il simpatico, che attiva i comportamenti di attacco e fuga, e il parasimpatico, che regola l’organismo in condizioni di riposo. Ma la situazione è più complessa” spiega Porges. “Io in particolare ho rivolto la mia attenzione al secondo, che fa capo soprattutto al nervo vago, il nervo più lungo che abbiamo”.
Un nervo vagabondo. Così chiamato perché “vaga” nei più reconditi anfratti corporei, il decimo dei nervi cranici è il più lungo e il più ramificato. Chiamato in passato pneumogastrico (poiché innerva, tra le altre cose, polmoni ed apparato gastrointestinale), il nervo vago prende origine dal tronco encefalico, cioè da quella porzione del cervello che unisce il midollo spinale alla corteccia. Uscito dal cranio attraverso il foro giugulare, entra prima nel torace e poi nell’addome. Per avere un’idea dei numerosi organi a cui è connesso basta considerare le conseguenze di un suo cattivo funzionamento (per esempio a causa dell’artrosi cervicale o di un nodo della cravatta troppo stretto): nausea, acidità di stomaco, pallore, bradicardia, mal di testa, sudorazione fredda, salivazione ridotta, fino allo svenimento.
Per verificare un buon funzionamento del nervo vago il parametro più utile è la variabilità della frequenza cardiaca (Hearth rate variability, o HVR). In una persona sana, infatti, il battito cardiaco cambia per permettere all’organismo di adattarsi alle varie situazioni: aumenta in situazioni emotivamente stressanti, rallenta in condizioni di tranquillità. Chi ha un basso tono vagale, tende invece ad agitarsi facilmente e a spaventarsi o ad attaccare quando la condizione non lo richiede.
Paradosso. Ebbene, studiando il vago Porges si è trovato di fronte a un paradosso: si è reso conto che un vago ben funzionante (cioè un buon “tono vagale”) è un indice di buona salute, ma anche una possibile causa di morte (se il battito cardiaco rallenta troppo). Ha così scoperto che ci sono due tipi di fibre vagali: un tipo più “primitivo”, senza mielina (la guaina che normalmente avvolge i nervi), che parte dalla regione dorsale del tronco encefalico; e un tipo mielinizzato, più efficiente e “intelligente”, che parte dalla regione ventrale e innerva anche i muscoli che determinano le espressioni del viso e lo sguardo. In pratica, ha compreso Porges, ci sono due branche del vago (e quindi del parasimpatico), una collegata alle situazioni che minacciano gravemente la vita, l’altra alle interazioni sociali.
Tre livelli evolutivi. Queste osservazioni hanno portato il neuroscienziato a formulare negli anni ’90 la “teoria polivagale”, che fornisce una visione del sistema nervoso autonomo diversa da quella ancora oggi presente sui libri di medicina. Non ci sono due sistemi antagonisti, ma tre livelli che sono comparsi nei mammiferi in diversi movimenti evolutivi. Perché si attivi uno o l’altro livello dipende dal grado di sicurezza ambientale e dalla presenza di potenziali pericoli.
Nel caso di un pericolo estremo, entra in azione il sistema filogeneticamente più primitivo, condiviso con tutti i vertebrati, mediato dal sistema vagale dorsale, cioè dal vago non mielinizzato: l’immobilizzazione. Se non c’è possibilità di fuga, infatti, simulare la morte può spingere un eventuale predatore ad allontanarsi. L’organismo, quindi, si blocca: il cuore quasi si ferma, la respirazione rallenta moltissimo, si diventa insensibili al dolore (si blocca il cancello talamico, determinando una “dissociazione mente-corpo”), gli sfinteri si rilasciano.
Se il pericolo è moderato, e quindi conviene agire per difendersi, si attiva il secondo livello, ovvero il sistema simpatico: grazie all’azione coordinata di ipotalamo, ipofisi e surrene, il corpo si prepara ad attaccare o fuggire, accelerando il battito cardiaco, aumentando la frequenza dei respiri e bloccando le attività digestive per permettere all’energia di essere utilizzata altrove.
L’istinto sociale. Se invece il pericolo è basso o assente entra in gioco il terzo livello, presente solo nei mammiferi e particolarmente sviluppato nell’uomo: è il vago filogeneticamente più recente, che controlla gli organi del torace (cuore e bronchi) e insieme i muscoli del viso e della testa promuovendo l’”ingaggio sociale”. In altre parole, in condizioni di relativa sicurezza, senza che ce ne rendiamo conto i muscoli del nostro corpo si predispongono a socializzare: le espressioni del viso si distendono, lo sguardo si rivolge all’interlocutore, le corde vocali promuovono un tono di voce pacato e rassicurante, l’orecchio medio estrae la voce umana dai rumori di fondo, i muscoli dell’orientamento del capo informano i nostri interlocutori delle nostre buone intenzioni. Inoltre viene attivato il giro fusiforme (la parte della corteccia predisposta a riconoscere e a “leggere” le facce) mentre viene inibita l’amigdala e, più in generale, le reazioni difensive simpatiche, come la secrezione del cortisolo, e le reazioni infiammatorie, favorendo così uno stato viscerale di calma (cuore e polmoni rallentati) con un notevole risparmio energetico. Nei mammiferi, e nell’uomo in particolare, questo circuito viene utilizzato per primo; se fallisce nel garantire la sicurezza entrano in gioco i circuiti più antichi. L’uomo, lo diceva già Aristotele, è dunque prima di tutto un animale sociale.
Il senso del pericolo. “In pratica durante la filogenesi lo sviluppo dell’autoregolazione animale comincia con un sistema primitivo di inibizione del comportamento, si affina con il sistema di attacco e fuga, e nei mammiferi superiori, in particolare nell’uomo, culmina in un sistema sofisticato di ingaggio sociale mediato dalle espressioni facciali e dalle vocalizzazioni”, riassume Porges.
Lo scienziato chiama “neurocezione” la nostra capacità, al di fuori dalla nostra consapevolezza, di scandagliare il grado di minaccia presente nell’ambiente, che si attiva, per esempio, ogni volta che ci imbattiamo in una persona estranea. “In caso di paura estrema (come di fronte a una minaccia di morte senza scampo) impallidiamo, il nostro volto diventa inespressivo, il tono di voce piatto, e ci sentiamo svenire”, chiarisce Porges. “Se l’incontro ci allarma (ma possiamo ancora contare sulle nostre forze), cominciamo a tremare, ad arrossire e a sudare, e il nostro corpo si attiva per attaccare o scappare. Se invece non abbiamo ragione di temere il nostro interlocutore, lo guardiamo negli occhi, sorridiamo, assumiamo un tono di voce caldo e amichevole, adottiamo una postura rilassata e accogliente”.
In pratica. Le implicazioni di questa teoria sono tante. La prima: per essere in buona salute è importante avere buone relazioni sociali (con gli altri e con noi stessi), che attivano il nostro sistema vagale evoluto favorendo uno stato fisiologico sano. La seconda: grazie alla bidirezionalità del sistema, lo stato dei nostri organi viscerali condiziona la nostra vita sociale. Ma soprattutto, raccomanda Porges, “più che trattare le malattie con farmaci e chirurgia, orientati verso il singolo organo, la medicina dovrebbe preoccuparsi dello stato fisiologico generale dell’organismo”. Una tecnica promettente, suggerisce, è l’uso di particolari vocalizzazioni che trasmettono un senso di sicurezza, lo stesso effetto che fa una ninna nanna al neonato che non vuole prender sonno. Allo stesso modo sarebbe importante rimuovere dagli ambienti inutili segnali di pericolo, come i suoni a bassa frequenza (gli stessi usati, non a caso, nei film horror), che il nostro sistema nervoso associa alla presenza di predatori in avvicinamento. Ma soprattutto la teoria polivagale di Porges spiega perché la psicoterapia, quando c’è una buona relazione tra paziente e analista, è già di per sé terapeutica. Spiega inoltre gli effetti biologici – e non solo psicologici – della pratica mindfulness della “gentilezza amorevole”.
Le conseguenze dei traumi. La teoria polivagale permette inoltre di fare luce sulle conseguenze dei traumi infantili, poiché la parte più evoluta del sistema nervoso autonomo viene forgiata nei primi anni di vita, quando il neonato entra in relazione con chi si prende cura di lui. Se per esempio muore un genitore, o peggio ancora in caso di abusi, maltrattamenti o trascuratezza, può verificarsi un’iperstimolazione del sistema vagale antico e una scarsa maturazione di quello più recente. La conseguenza sarà la tendenza a sovrastimare i pericoli, a vedere gli altri come nemici e non potenziali amici, a reagire con fenomeni di dissociazione anche a stimoli di lieve entità. Chi è traumatizzato sarà quindi più vulnerabile agli eventi stressanti e sarà dotato di un sistema di ingaggio sociale meno efficiente: avrà difficoltà a mantenere lo sguardo, a parlare con un ritmo adeguato, a usare espressioni facciali appropriate. Inoltre soffrirà con maggior facilità di problemi cardiaci, respiratori, intestinali e di disturbi del sistema immunitario.
Infine, Porges mette in guardia da quelle situazioni che alterano la percezione di sicurezza nella collettività, come i recenti episodi di terrorismo. “Il senso di allarme generalizzato sposta il nostro sistema autonomo verso uno stato fisiologico di difesa”, avverte Porges. “La conseguenza sarà una riduzione della capacità di connettersi con gli altri. E si tradurrà, alla lunga, in un peggioramento della nostra salute”.
Marta Erba
Fonti
Stephen W. Porges, La teoria polivagale (Giovanni Fioriti editore)
©martaerba.it