Il ruolo chiave delle emozioni

Bistrattate per secoli, le emozioni oggi sono al centro della ricerca scientifica. L’intervista alla psicologa Lavinia Barone.

Ritenute un residuo irrazionale del comportamento animale e per questo snobbate per secoli dagli scienziati (con poche eccezioni, tra cui Charles Darwin), da qualche anno a questa parte le emozioni stanno vivendo un momento di auge nell’ambito della ricerca scientifica. L’intervista a Lavinia Barone, docente all’Università di Pavia, autrice e curatrice di vari libri sulle emozioni, ricercatrice nel campo dello sviluppo emotivo dei bambini e degli adolescenti e dei disturbi legati a una cattiva regolazione delle emozioni.  

A che cosa servono le emozioni?
Anche se la cultura occidentale ha sempre avuto la tendenza a distinguere i comportamenti “razionali” da quelli “emotivi”, in genere privilegiando i primi e svalutando i secondi, emozioni e ragione sono due facce della stessa medaglia. Le emozioni sono infatti il primo strumento che abbiamo per renderci conto di ciò che capita dentro e fuori di noi. La loro funzione è quindi fondamentale per la nostra sopravvivenza: le emozioni ci permettono di valutare una situazione e di reagire in modo adeguato. “Reagire” è una parola chiave: a un’emozione è associata automaticamente una reazione. Quando si prova un’emozione è quindi fondamentale fare qualcosa, e farla in modo appropriato. Se io provo paura e non posso scappare, l’intensità della mia emozione sale. Se provo rabbia ma non lo manifesto, la mia rabbia non fa che aumentare.

Perché alcuni di noi hanno difficoltà a esprimere le emozioni?
Proprio a causa di questo pregiudizio negativo, molte persone pensano che le emozioni non siano accettate socialmente o all’interno di una relazione, e quindi imparano a inibirle. Altre persone non lo fanno volontariamente: non le manifestano perché nessuno ha insegnato loro a esprimerle. Infine, ci sono casi in cui ci si abitua a sostituire alcune emozioni con altre.

Può fare qualche esempio di questo genere di sostituzione?
Ad alcune bambine viene insegnato che non bisogna manifestare la rabbia: imparano così a sostituirla con un’altra emozione considerata più “accettabile”, per esempio la tristezza. Molti uomini evitano di piangere perché da piccoli venivano accusati di essere “femminucce” al primo capriccio: imparano così a sostituire la tristezza o la paura con la rabbia, emozione che nei maschi è spesso considerata una dimostrazione di carattere. Sostituire un’emozione con un’altra, però, non solo non è utile ma può essere anche pericoloso, perché induce a mettere in atto un comportamento inappropriato. Se io ho paura ma la scambio per rabbia, invece che scappare affronto la persona o la situazione che me la provocano: è un errore di questo tipo che sta alla base della ricerca attiva di situazioni a rischio, tipica di alcuni adolescenti. Se provo rabbia ma mi mostro triste, mi impedisco di imporre il mio punto di vista: mi sento quindi inefficace e mi intristisco sempre di più, fino a deprimermi.  

Che cosa succede invece se si reprimono le emozioni?
Come detto, se si reprimono le emozioni, la loro intensità aumenta. Succede allora che l’emozione viene convertita in sintomi fisici, che possono diventare cronici. La rabbia può provocare contrazioni muscolari dolorose, la paura o la tristezza causano spesso disturbi viscerali, una diminuzione delle difese immunitarie o un cambiamento del metabolismo. 

Come si impara a esprimere le emozioni e a distinguerle tra loro?
Per fortuna Madre Natura ci aiuta. I neonati sono già in grado di esprimere le emozioni fondamentali: paura, rabbia, felicità, tristezza, disgusto. Sanno cioè farsi capire da subito, attraverso il tono della voce espresso nel pianto e le espressioni del viso. Così come il neonato è attrezzato per esprimere le emozioni, i genitori sono biologicamente attrezzati per riconoscerle: una mamma sensibile è in grado di distinguere il pianto dovuto alla fame da quello dovuto al sonno o al disagio. È proprio grazie ai genitori e, crescendo, alle altre persone con cui si entra in relazione, che si impara gradualmente a distinguere le emozioni tra loro: se una mamma interpreta correttamente la paura o la rabbia del figlio, infatti, questi impara a riconoscerle e a esprimerle correttamente, così come impara a interpretarle correttamente negli altri. Ma non è detto che sia sempre così facile.

Che cosa può accadere?
Nella maggior parte dei casi i genitori si sintonizzano spontaneamente con le emozioni del figlio. Ci sono però persone che hanno difficoltà con il proprio mondo emotivo, e che quindi faticano a rispondere in modo adeguato. Se una mamma è depressa può fraintendere un bambino che esprime paura e scambiarla per rabbia, perché la sua depressione la porta a leggere le emozioni come ostili. La conseguenza sarà che il bambino, e il futuro adulto, farà fatica a discriminare la paura dalla rabbia. Ma il problema non è sempre dei genitori: ci sono anche bambini che hanno capacità ridotte di farsi capire, e disorientano chi cerca di sintonizzarsi con loro.  

Che cosa può fare un genitore che si rende conto di avere difficoltà a riconoscere e a interagire a livello emotivo con il figlio?
Una delle possibilità è ricorrere a programmi specifici, di efficacia scientificamente dimostrata. Per esempio il protocollo di videofeedback VIPP-SD (Video-feedback Intervention to Promote Positive Parenting and Sensitive Discipline): i genitori vengono videoregistrati mentre interagiscono con i loro figli nei momenti di gioco; successivamente, attraverso la visione di alcuni spezzoni, vengono aiutati a diventare più sensibili ai segnali che manda il loro bambino, e a riconoscerne quindi le emozioni. 

Se l’infanzia è l’età in cui si apprende il linguaggio delle emozioni, quella in cui è più difficile gestirle è l’adolescenza…
L’adolescenza è un periodo emotivamente complesso, in cui si definisce l’identità della persona: è l’età in cui ci si apre ai rapporti, si tenta di uscire dalla famiglia, si hanno le prime relazioni sentimentali. Inoltre c’è una sensibilità maggiore al giudizio degli altri, in particolare del gruppo dei pari. Di conseguenza le emozioni possono essere particolarmente intense, e non di rado i genitori si sentono impreparati a comprenderle e a gestirle. Anche in questo caso esiste un programma canadese dalle solide basi scientifiche: si chiama CONNECT ed è rivolto ai genitori di preadolescenti e adolescenti che si sentono in difficoltà o che vogliono capire i loro figli diventati improvvisamente “diversi” rispetto a come erano. Dal momento che la regolazione delle emozioni è sempre reciproca, infatti, anche lavorare solo con i genitori può avere ripercussioni importanti sui figli: se migliorano le capacità dei primi, i ragazzi saranno meno impulsivi e aggressivi. Introdotto nelle aree più disagiate della popolazione, questo programma ha ridotto i comportamenti a rischio e i reati penali in queste fasce di età. 

Come si è arrivati a capire che le emozioni hanno un ruolo così importante nella nostra vita?
Grazie alla ricerca, che in questo campo è sempre più diversificata. Non ci sono solo le neuroscienze, che vanno a vedere che cosa accade nel cervello quando proviamo, per esempio, gioia o paura. Ci sono anche gli studi sperimentali sull’espressione delle emozioni, il cui pioniere è stato Paul Ekman – al cui lavoro è ispirata la serie tv Lie to me – che vanno a valutare parametri quali il tono della voce, la contrazione dei muscoli facciali, la mimica, la postura. E ricerche sui pensieri legati alle emozioni, cioè sulle valutazioni cognitive automatiche (in inglese appraisal) che precedono le reazioni emotive: per esempio, quando io provo paura è perché ho fatto un veloce esame dell’ambiente e ho valutato un pericolo. Ma il campo veramente emergente è quello della regolazione delle emozioni: gli studi dimostrano che le emozioni, se ben gestite, non ostacolano affatto le decisioni o le azioni, ma anzi le favoriscono. Inoltre migliorano l’interazione con gli altri e, di conseguenza, il proprio benessere.

Marta Erba

(articolo scritto per Focus Extra)

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