La personalità è quel particolare modo di essere che caratterizza ciascuno di noi. Ma come si forma? Ed è stabile o si modifica nel tempo?
“Ha una personalità spiccata”. Oppure: “è senza personalità”. Capita spesso di fare o udire affermazioni di questo tipo. Se però ci chiedessero di definire che cosa davvero intendiamo con la parola “personalità”, la maggior parte di noi non saprebbe dove cominciare. Vediamo dunque di che si tratta.
“Per personalità si intende quell’insieme di motivazioni, pensieri, affetti e comportamenti che caratterizza l’individuo” spiega spiega Vittorio Lingiardi, professore di Psicologia dinamica alla Sapienza Università di Roma e autore di La personalità e i suoi disturbi (Raffaello Cortina Editore). “E che risulta da fattori biologici e dall’esperienza sociale e culturale”. La personalità è quindi quel modo di essere che contraddistingue ciascuno di noi, in parte innato, in parte condizionato da ciò che ci accade nella vita. Si esprime soprattutto nell’interazione con gli altri e tende a essere stabile nel tempo. Se è troppo statica, però, non è necessariamente un bene. Come vedremo, infatti, le personalità vantaggiose sono quelle più malleabili: in grado di cambiare quando gli eventi e le esperienze di vita lo richiedono.
Maschera
Insomma, se la personalità aiuta a distinguersi, essere troppo fedeli a se stessi può essere un rischio. A mettere in guardia è la stessa etimologia della parola: personalità deriva dal latino persona, che era la maschera indossata dagli attori e che amplificava le caratteristiche del personaggio: la personalità ha quindi a che fare più con l’apparenza che con la sostanza. Anche lo psichiatra americano Eric Berne, nella sua teoria della personalità, citava esplicitamente il teatro: sosteneva infatti che, fin dai primi anni di vita, ciascuno di noi si costruisce inconsapevolmente un “copione”, e continuerà poi a recitarlo, come se il proprio modo di percepire la realtà e di reagire a ciò che accade fosse l’unico possibile.
Simile è il concetto di carattere, parola che deriva dal greco kharàssein, incidere. Identifica quindi il “marchio”, l’insieme dei segni caratteristici dell’individuo (kharaktér è il segno inciso, si pensi ai “caratteri” tipografici). Che può però diventare una “corazza”, come metteva in guardia lo psicoanalista Wilhelm Reich: un’armatura che serve a difendersi dagli insulti dell’esistenza, ma che può ostacolare l’espressione autentica di sé e dei propri desideri.
Dalla nascita
Diverso invece è il temperamento, termine che identifica quelle caratteristiche della personalità presenti fin dalla nascita e determinate dal DNA. Lo psicologo Arnold Buss sostiene che la genetica influenza soprattutto tre aspetti: l’emotività, l’attività (cioè la forza e rapidità dei movimenti) e la socievolezza. Ogni genitore, in effetti, sperimenta la sensazione che il proprio figlio abbia, fin dalla sua venuta al mondo, un proprio modo di essere: c’è il bimbo vivacissimo, che non sta mai fermo, e c’è quello pacifico, che si limita a guardarsi intorno con aria esplorativa; c’è quello che sorride a tutti e quello che sembra infastidito da ogni volto nuovo.
Secondo lo psichiatra e genetista Robert Cloninger, a condizionare biologicamente la nostra personalità sono soprattutto tre neurotrasmettitori cerebrali: la serotonina, la dopamina e la noradenalina. Sembra per esempio che la carenza della prima sia responsabile di un temperamento ansioso e della tendenza a evitare le situazioni potenzialmente rischiose. E che l’eccesso della seconda favorisca un temperamento esplorativo e la ricerca continua di nuove esperienze. In generale, tuttavia, la personalità è influenzata da una moltitudine di geni, e anche per questo le conoscenze in questo campo restano molto limitate.
Vantaggi evolutivi
E allora una domanda nasce spontanea: perché la natura ci crea diversi? Non potremmo essere uguali, così andremmo tutti d’accordo? In realtà alla base delle nostre differenze c’è una precisa ragione evolutiva: per la sopravvivenza della nostra specie “conviene” che i suoi membri abbiano personalità variegate. In questo modo, per ogni evenienza, ci sarà sempre qualcuno che ha il carattere giusto per sopravvivere. Un esempio: un nostro antenato coraggioso poteva essere avvantaggiato nel cacciare gli animali per procurarsi il pasto; ma se le belve erano particolarmente feroci, era preferibile essere pauroso, e uscire allo scoperto solo quando i predatori se ne erano andati, per cibarsi dei loro avanzi. Essere diversi, quindi, ha permesso alla specie umana di sopravvivere in un ambiente in continua trasformazione. E anche più avanti le cose non sono cambiate: in ogni tempo e in ogni luogo c’è sempre stato qualcuno che aveva una personalità più vantaggiosa delle altre.
Modificabile
Oltre al DNA, come messo in evidenza dallo psicoanalista Allan Schore e dallo psichiatra Daniel Siegel, sono le prime interazioni con i genitori (in particolare la mamma) a forgiare le caratteristiche future del neonato, poiché modellano la secrezione ormonale e la trascrizione genica, con effetti permanenti sui circuiti cerebrali. In seguito la personalità sarà sempre influenzata dall’ambiente e dalle esperienze di vita. Tra fratelli, per esempio, si è osservato il fenomeno della “deidentificazione”, per cui lo stretto contatto porta man mano a seguire strade radicalmente diverse. Se un ragazzo è disciplinato e studioso, il fratello sarà spesso svogliato e ribelle: lo fa per distinguersi, ma anche perché in un campo in cui non può competere (per esempio gli ottimi voti a scuola) preferisce non cimentarsi del tutto. “Ogni figlio, nel corso del tempo, cerca di occupare una ‘nicchia familiare’” osserva Frank Sulloway, noto psicologo dell’età evolutiva del MIT “cioè di ricoprire un ruolo che verrà riconosciuto e apprezzato dai genitori”.
La personalità, infatti, si forma e si consolida soprattutto con il contatto umano, prima con i genitori, e più avanti con i coetanei, compagni di scuola e compagni di giochi. La fase più delicata è quella dell’adolescenza, periodo in cui lo sviluppo della personalità, ancora fuori fuoco, può subire battute d’arresto o contraccolpi pesanti per gli stress a cui ogni ragazzo è sottoposto: dai mutamenti fisici della pubertà, ai tentativi di genitori e insegnanti di costringerlo a prendere direzioni che magari non sono le sue.
Classificazioni
È intorno ai 30 anni che la personalità tende a stabilizzarsi. Anche per questo, da sempre, si è tentato di classificare le persone sulla base delle loro caratteristiche. Tra i primi a cimentarsi ci fu Teofrasto, discepolo di Aristotele vissuto nel IV secolo a.C, che compose un elenco di 30 caratteri possibili, quasi tutti negativi (l’adulatore, il chiacchierone, il garrulo, lo spilorcio, il gretto, il vigliacco, e così via). Molto più successo ebbe la classificazione ideata da un suo contemporaneo, Ippocrate di Kos, il primo a sostenere che la personalità sia, almeno in parte, influenzata dalla biologia. Il medico greco aveva infatti individuato quattro tipologie umane a partire dalla predominanza di uno dei quattro umori che allora si riteneva costituissero l’organismo: il tipo “sanguigno” (allegro, goloso, giocherellone) se prevaleva il sangue; il “collerico” (permaloso, furbo, generoso) se prevaleva la bile gialla; il “malinconico” (triste, debole, avaro) se ad abbondare era la bile nera; e infine il “flemmatico” (lento, pigro, apatico) se l’umore dominante era il flegma (il muco).
La teoria degli umori si rivelò fallace, ma la suddivisione ideata da Ippocrate ebbe un lungo successo. Fu infatti ripresa dagli astrologi arabi, che ai temperamenti di Ippocrate associarono l’influenza di un pianeta: Giove per il sanguigno (da cui “gioviale”), Marte per il collerico (“marziale”), Saturno per il malinconiceo (“saturnino”) e la Luna per il flemmatico (“lunatico”). E fu rivisitata nel secolo scorso anche dallo psicologo Hans Eysenck, che mise i quattro temperamenti in relazione con due dimensioni: il nevroticismo (dall’emotovamente stabile al nervoso) e l’estroversione-introversione.
Introversi ed estroversi
Il binomio introversione-estroversione sta alla base anche della classificazione proposta dallo psichiatra svizzero Carl Jung nel libro I tipi psicologi. Jung distinse infatti il comportamento “estroverso” (orientato verso l’esterno, con maggiore facilità a sviluppare relazioni interpersonali) e quello “introverso” (rivolto al proprio mondo interno, quindi più propenso alla riflessione). In questi due gruppi ci sono poi quattro “funzioni psichiche” che possono dominare sulle altre, generando ulteriori differenze: il pensiero, il sentimento, la sensazione e l’intuizione, da cui originerebbero individui razionali, sentimentali, sensibili e intuitivi. Ma, come sottolinea lo psichiatra svizzero, queste caratteristiche non sono rigide ed esclusive, poiché ciascuno di noi le possiede in realtà tutte quante, solo che alcune faticano a emergere.
Tra le classificazioni oggi più in voga, infine, c’è la cosiddetta “big five”, uno dei modelli più testati e utilizzati per lo studio dei tratti del carattere. Le “magnifiche 5” dimensioni della personalità, che insieme formano l’acronimo inglese OCEAN, sono: l’apertura all’esperienza (Openness to experience); la coscienziosità (Conscientiousness); l’estroversione (Extraversion); la gradevolezza (Agreableness), cioè l’essere o meno gradevoli con gli altri; e infine la vulnerabilità emotiva (Neuroticism). Ciascuno di noi le possiede tutte in diverso grado.
Personalità vincenti
Oggi però, più che a classificare, la ricerca in psicologia sembra orientata a individuare gli aspetti “vincenti” del carattere e a ideare metodi per svilupparli. Tra questi al primo posto c’è la resilienza, cioè la capacità di “piegarsi senza spezzarsi”. Le persone resilienti non si fanno abbattere da un trauma, sono sempre pronte ad affrontare i momenti di crisi e, se necessario, chiedono aiuto. Sanno cambiare e accettare i cambiamenti.
Altra caratteristica vantaggiosa è l’ottimismo, il cui studio ha determinato la nascita di una nuova corrente della psicologia – la “psicologia positiva” – che ha l’obiettivo di identificare i fattori utili ad affrontare le difficoltà della vita e i problemi sociali emergenti. È stato dimostrato, infatti, che le emozioni positive favoriscono il benessere fisico (l’ottimismo rallenta lo sviluppo dell’aterosclerosi) e mentale (gli ottimisti hanno maggiori possibilità di affermarsi sul lavoro). Christopher Peterson dell’Università del Michigan ha elencato le caratteristiche dell’ottimista, quali la curiosità, il senso pratico, la lungimiranza, il coraggio, la perseveranza, la sincerità, la generosità, la modestia, la prudenza, il senso dell’umorismo. La più importante è la tendenza, di fronte a un evento negativo, a fornire spiegazioni temporanee e circoscritte: se un ottimista perde il lavoro, cioè, non mette in discussione se stesso (non si sente un fallito) né accusa la sua azienda o la crisi, bensì si rimbocca le maniche e ne cerca un altro. È portato a vedere ogni situazione avversa come risolvibile, e quindi a cercare sempre una soluzione. E chi cerca… trova.
Articolo scritto per Focus Extra