Intervista a Vittorio Gallese

Dalla simulazione incarnata alla neuroestetica. Le ricerche di Vittorio Gallese a vent’anni dalla scoperta dei neuroni specchio.

vittorio galleseAgli inizi degli anni ’90 un gruppo di ricercatori di Parma fece una scoperta che ebbe risonanza in tutto il mondo: mentre studiavano la corteccia motoria dei macachi, scoprirono che c’erano neuroni che si attivavano sia quando le scimmie compivano un’azione (come afferrare un oggetto) sia quando la vedevano eseguire da qualcun altro. Battezzarono quelle cellule “neuroni specchio”, inaugurando per le neuroscienze una nuova era (celebre fu la dichiarazione dello scienziato Vilayanur Ramachandran, che ebbe a dire: “I neuroni specchio saranno per la psicologia quello che il DNA è stato per la biologia”). Del team faceva parte anche Vittorio Gallese, forse il più versatile tra gli studiosi del gruppo parmense, che ha esplorato anche campi apparentemente lontani dalle neuroscienze, come l’arte e la psicologia.
Ecco che cosa mi ha detto durante una recente intervista. 

Negli anni ’90 la scoperta dei neuroni specchio ha avuto risonanza in tutto il mondo.  A oltre vent’anni di distanza che bilancio trarre? Perché questa scoperta è da ritenersi rivoluzionaria?

I neuroni specchio sono neuroni motori, da noi scoperti agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso nel cervello del macaco. Si attivano sia durante l’esecuzione di azioni dotate di scopo, come afferrare un oggetto, sia quando la stessa azione è vista eseguita da qualcun altro. Studi successivi hanno dimostrato che neuroni con proprietà simili sono presenti anche nel cervello umano. La scoperta dei neuroni specchio ha permesso di interpretare in termini radicalmente nuovi il rapporto tra azione, percezione e cognizione. Comprendiamo ciò che gli altri fanno grazie al fatto che le azioni altrui sono mappate dai circuiti nervosi che consentono a noi di compiere le stesse azioni. Chi osserva riutilizza le proprie risorse neurali per penetrare il mondo dell’altro dall’interno, mediante un meccanismo di simulazione motoria. I neuroni specchio sono importanti perché modificano in modo sostanziale la nostra concezione di percezione. Vediamo non solo col cervello visivo, ma anche con quello motorio. Grazie ai neuroni specchio l’interazione tra azione e percezione è fondamentale per determinare processi di base che rendono possibile l’intersoggettività: capire cosa fa l’altro.

Non sono mancate anche le opinioni in senso opposto. Un esempio è la recente pubblicazione Il mito dei neuroni specchio, in cui il neuroscienziato Gregory Hickok giudica la vostra scoperta sopravvalutata. Perché quelle accuse? Come replica a Hickok?

La discussione e il dibattito sono ingredienti fondamentali del progresso scientifico e per questi motivi sono benvenuti. Il titolo del libro di Hickock, tuttavia, è fuorviante. I neuroni specchio non sono un mito ma una realtà scientifica, consolidata dai risultati di più di venti anni di ricerche condotte non solo in Italia, ma in tutto il mondo. Le polemiche secondo me dipendono da più fattori. Le implicazioni della nostra scoperta ci hanno portato a entrare in diverse aree tematiche come la filosofia della mente, la psicopatologia e l’estetica, criticando vecchie teorie e impostazioni, proponendone di nuove. Chi si riconosce ancora oggi nel paradigma cognitivo classico, per cui tutto è teoria e linguaggio, non accoglie di buon grado le nostre critiche e ipotesi circa il ruolo centrale della corporeità e dell’azione nella nostra vita cognitiva. L’enorme esposizione mediatica della nostra scoperta ha talvolta prodotto divulgazioni imprecise quando non addirittura fuorvianti dei risultati degli esperimenti e ciò che essi potevano spiegare. Infine, questa grande popolarità ha forse anche suscitato una certa invidia in alcuni colleghi.

Partendo dalla scoperta dei neuroni specchio lei ha formulato il concetto di “simulazione incarnata”. Vuole spiegare, con parole semplici, di che cosa si tratta?

La nostra ricerca, e in seguito quella di molti altri colleghi in tutto il mondo, ha dimostrato che analoghi meccanismi di rispecchiamento sono presenti nel nostro cervello anche per le emozioni e le sensazioni. Le stesse aree cerebrali che si attivano quando per esempio proviamo disgusto o dolore, oppure esperiamo una sensazione tattile, si attivano anche quando vediamo gli altri esperire le stesse emozioni e sensazioni. Ho introdotto il modello della Simulazione Incarnata per descrivere un meccanismo funzionale di base del nostro cervello che ci mette in relazione con gli altri. In pratica, riutilizziamo le stesse rappresentazioni neurali non linguistiche che presiedono alle nostre azioni, emozioni e sensazioni per riconoscerle negli altri. La simulazione incarnata è però solo uno dei meccanismi alla base della nostra intersoggettività. Probabilmente quello più antico da un punto di vista evolutivo e il più precoce dal punto di vista dello sviluppo dei singoli individui.

I meccanismi di rispecchiamento e la “simulazione incarnata” possono spiegare il tipo particolare di rapporto che si stabilisce tra il neonato e la mamma nei primissimi mesi e anni di vita, e in generale possono aiutare a comprendere il complesso processo dello sviluppo infantile?

La ricerca condotta dagli anni ’60 del secolo scorso da pionieri come Daniel Stern o Colwyn Trevarthen ci ha consegnato un’immagine nuova del bambino, visto come un partner fin da subito attivo nel cercare un rapporto con la madre. Tale rapporto si sostanzia già nelle prime ore di vita nella cosiddetta imitazione neonatale. Il neonato imita movimenti della bocca mostratigli dall’adulto che gli sta di fronte, come aprire la bocca o protrudere la lingua. Recenti risultati suggeriscono che l’imitazione neonatale, così come forme più mature di apprendimento imitativo, sia resa possibile da un meccanismo di rispecchiamento che per i movimenti della bocca sembra essere già presente alla nascita. Da lì inizia un sempre più complesso scambio di gesti, vocalizzazioni ed emozioni tra madre e bambino che ne condiziona in maniera decisiva il successivo sviluppo psico-affettivo. Il nostro sviluppo dipende in maniera decisiva dalla quantità e qualità di relazioni che possiamo stabilire con gli altri e a questo proposito, i meccanismi di rispecchiamento e la simulazione incarnata sono fondamentali. Questo è uno dei temi portanti del libro che ho recentemente scritto con Massimo Ammaniti: La nascita dell’Intersoggettività.

La scoperta dei neuroni specchio ha aperto anche nuove prospettive agli studi sul linguaggio. E’ stato ipotizzato che il linguaggio – che nell’architettura cerebrale è connesso alle aree responsabili dei movimenti – si sia evoluto a partire dal sistema motorio, e che sia questa la ragione per cui il linguaggio parlato è spesso accompagnato da gesti e da metafore che implicano azioni motorie (come “afferrare il concetto”, “sputare sentenze”, “tenersi in contatto”, ecc). I neuroni specchio potrebbero dunque avere a che fare con la nascita del linguaggio?

I neuroni specchio si attivano non soltanto quando si vede compiere un’azione, ma anche quando se ne sente parlare, o quando se ne legge. Già dieci anni fa insieme al linguista cognitivo statunitense George Lakoff, sostenemmo lo stretto legame tra espressioni linguistiche, corpo e simulazione incarnata. Dati recenti mostrano che anche quando leggiamo metafore a sfondo corporeo – per esempio a contenuto tattile, come ‘un carattere ruvido’ – attiviamo le aree sensori-motorie che mappano quelle stesse sensazioni, quando le esperiamo in senso letterale. La mia ipotesi del ‘riuso neuronale’ sostiene che utilizziamo meccanismi cerebrali originariamente evolutisi per guidare le nostre interazioni col mondo mettendoli anche al servizio della più recentemente evoluta competenza linguistica. Tuttavia, siamo ancora molto lontani dal rendere conto della complessità linguistica esclusivamente in termini di simulazione incarnata. Soprattutto gli aspetti astratti del linguaggio rappresentano la sfida principale per il nostro approccio, ed è a questi aspetti che stiamo dirigendo le nostre ricerche.

Il fatto che oggi comunichiamo con i device tecnologici più che tra di noi potrebbe avere ripercussioni sullo sviluppo delle nostre menti?

Il confine tra ciò che chiamiamo “reale” e il mondo immaginario e immaginato è molto meno netto di quanto si potrebbe pensare. Vedere e immaginare di vedere, agire e immaginare di agire, esperire un’emozione e immaginarsela, si fondano sull’attivazione di circuiti cerebrali in parte identici, grazie alla simulazione incarnata. Lo stesso vale per stimoli veicolati da strumenti di comunicazione di massa come schermi video, computers, tablets o telefonini. Credo non si debba demonizzare la tecnologia, ripetendo lo stesso errore compiuto in passato quando furono demonizzati prima la fotografia e poi il cinema. Ciò detto, devo aggiungere che il nostro sistema cervello/corpo si è evoluto nel corso di milioni di anni per interagire con un mondo fisico popolato da oggetti inanimati e altri corpi viventi. Il rapporto con la rappresentazione “artificiale” del reale, dagli affreschi paleolitici di Lascaux in poi, ha tradizionalmente costituito una porzione marginale del nostro rapporto con la realtà. Oggi assistiamo, di fatto, a un ribaltamento delle proporzioni. Per milioni di uomini e donne oggi il rapporto con la realtà avviene sempre di più attraverso la sua rappresentazione mediatica. Ciò vale per i telegiornali o i reality shows, come per i social networks. Per un numero crescente di persone è reale solo ciò che i mezzi di comunicazione di massa rappresentano. Ovviamente, il senso di ciò che è reale e di ciò che non lo è, ne può essere profondamente condizionato. Ciò può condurre a una profonda modificazione dei sistemi valoriali, fino a condizionare anche i comportamenti dei singoli individui. E’ un tema su cui in futuro le neuroscienze potranno dirci molto.

Nelle sue ricerche ha anche ipotizzato che i neuroni specchio potrebbero essere alla base dell’esperienza estetica. Può spiegare in che senso? Ha in mente un’opera d’arte (o più di una) in cui l’esperienza di “rispecchiamento” le sembra più evidente?

La fruizione di tutte le forme di finzione che oggi definiamo ‘artistiche’ implica aspetti comuni che possono oggi essere utilmente indagati anche dalle neuroscienze. Il sentimento di coinvolgimento corporeo suscitato da dipinti, sculture, forme architettoniche, cinema e letteratura, incrementa le nostre risposte emozionali a quegli stessi oggetti. Per ciò costituisce un ingrediente fondamentale della nostra esperienza estetica. La mia teoria della Simulazione Incarnata mira appunto a cogliere questi aspetti. Sotto gli aspetti più francamente cognitivo-linguistici che guidano la nostra esperienza dell’arte, vi è una dimensione corporea – già intuita in passato da molti filosofi e storici dell’arte – che oggi siamo in grado di studiare empiricamente. La simulazione incarnata è rilevante per definire l’esperienza estetica in almeno tre modi: Primo, grazie ai sentimenti corporei suscitati dai contenuti delle opere d’arte con cui ci relazioniamo, per mezzo dei meccanismi di rispecchiamento che esse evocano. In questo modo la simulazione incarnata genera quel particolare coinvolgimento empatico che svolge un ruolo fondamentale nell’esperienza estetica. Secondo, in virtù delle memorie incarnate e delle associazioni immaginative che le opere d’arte risvegliano in chi le contempla: ognuno di noi proietta qualcosa disssè in ciò che guarda. Terzo, grazie alla possibilità che certe immagini hanno di risvegliare in chi le guarda la simulazione del gesto che le ha prodotte. Con lo studio recentemente pubblicato da Maria Alessandra Umiltà abbiamo ad esempio dimostrato che quando guardiamo un taglio nella tela di Lucio Fontana attiviamo le aree motorie che presiedono ai gesti della nostra mano. E’ come se, grazie alla simulazione, l’opera ci dicesse qualcosa anche di come l’artista l’ha realizzata. Più recentemente abbiamo iniziato, in collaborazione col Prof. Michele Guerra, studioso di cinema all’Università di Parma, uno studio neuroscientifico di aspetti fondamentali del cinema come i movimenti di macchina e il montaggio. L’obiettivo non è quello di sostituire le neuroscienze alle discipline umane, ma solo offrire un ulteriore livello di descrizione che può arricchire le nostre conoscenze.

Nel 1994, più o meno negli stessi anni in cui pubblicavate i vostri primi lavori sui neuroni specchio, il neuroscienziato Antonio Damasio pubblicava “L’errore di Cartesio”, un libro in cui accusava il filosofo francese di avere erroneamente separato il corpo dalla mente. Ritiene che la scoperta dei neuroni specchio abbia contribuito a rimarcare che quello di Cartesio fu un errore concettuale? Perché, secondo lei, per così tanto tempo l’uomo ha pensato che mente e corpo fossero due cose diverse?

La perdita della centralità dell’uomo nell’universo conseguente alle scoperte dell’astrofisica e il progressivo processo di secolarizzazione, ci hanno privati di molte certezze.
Il dualismo mente/corpo mi sembra in parte volto a preservare la nostra unicità e alterità rispetto a tutte le altre creature viventi. Mente e corpo sono due parole che descrivono aspetti diversi ma strettamente intrecciati della nostra natura biologica. Il cosiddetto ‘errore’ di Cartesio ha condizionato profondamente le scienze cognitive, separando per secoli il corpo dalla mente, la percezione dall’azione e l’Io dal Tu. Fortunatamente oggi mi sembra che ci si stia muovendo in un’altra direzione, volta appunto a mettere in luce la cruciale importanza della corporeità per la coscienza, il pensiero e il linguaggio.

In questo numero di Focus abbiamo spesso usato le parole cervello e mente come sinonimi. Secondo lei è corretto ritenere che la mente sia il cervello, o che comunque provenga dal cervello?

Le risposte che ci vengono dalle neuroscienze dipendono molto dalle domande che esse pongono. Pur essendo uno scienziato, non sono uno scientista. Il livello di descrizione offerto dalle neuroscienze cognitive è necessario ma non sufficiente per capire chi siamo. Lo studio del cervello non può prescindere dallo studio del corpo cui il cervello è legato, dell’ambiente in cui è situato, e dal fatto che non viviamo soli, ma diveniamo chi siamo grazie all’incontro e alla relazione con gli altri. Dobbiamo partire dal tema dell’esperienza degli individui, naturalizzarla studiandola con le neuroscienze, e utilizzare i risultati così ottenuti per ridiscutere il livello individuale e personale di descrizione da cui  eravamo partiti. Non mi sognerei mai di studiare da un punto di vista neuroscientifico la mente o l’arte prescindendo dalle conoscenze che su questi temi ci offrono discipline come la filosofia o la storia dell’arte. Questo è il motivo per cui le mie ricerche empiriche su queste tematiche “di confine” nascono da un lungo studio preparatorio multidisciplinare che si avvale della collaborazione con studiosi delle scienze umane.

Negli ultimi anni molti neuroscienziati stanno affrontando uno degli argomenti più spinosi: quello della coscienza. Anche lei ha provato a formulare ipotesi sullo sviluppo del sé?

Si tratta ovviamente di un tema molto complesso. Quando pensiamo al sé normalmente pensiamo alla nostra identità autobiografica e narrativa. Io ho deciso invece di studiare il sé partendo dalla sua dimensione di base corporea. Vi è un senso del sé che è intimamente legato alle potenzialità motorie del nostro corpo, legato cioè a quella che il filosofo Francese Merleau-Ponty ha definito ‘practognosia’, un livello di conoscenza di noi stessi e del mondo che deriva dalle nostre potenzialità motorie. Come abbiamo recentemente dimostrato, gli stessi neuroni che fanno muovere la mia mano si attivano di più quando guardo una fotografia della mia mano rispetto a quella di un altro, anche se non mi è chiesto esplicitamente di riconoscerla come mia. Questo senso primitivo del sé è legato all’attività del sistema motorio e di quello limbico-emozionale, in particolare con la corteccia insulare, una zona profonda del lobo frontale. Stiamo utilizzando quest’approccio anche per studiare disturbi psichiatrici come la schizofrenia, la depressione e i disturbi delle condotte alimentari come l’anoressia.

A questo proposito, quali sono le sue ipotesi sulle origini della schizofrenia?

Credo che al fondo essere schizofrenici significhi soffrire di un profondo disturbo della costituzione del sé e della sua relazione con gli altri. Negli ultimi 5 anni abbiamo pubblicato diversi studi che dimostrano come fin dall’esordio i pazienti schizofrenici presentano alterazioni del sé corporeo e dei suoi confini. Questi risultati sono incoraggianti e ci fanno sperare di potere finalmente correlare l’esperienza che i pazienti fanno di sé e del mondo con il profilo di attivazione dei loro circuiti cerebrali. I risultati di queste ricerche potrebbero in futuro forse rivelarsi utili anche per impostare nuove strategie terapeutico-riabilitative.

Marta Erba

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