La mente orientale

Mente orientale e mente occidentale sono diverse? La disciplina emergente delle “neuroscienze culturali” cerca di capire come la cultura di appartenenza condizioni lo sviluppo del cervello

mente orientale sararicciardelliChiariamo subito: non esiste una mente orientale e una occidentale. La mente è una sola. A essere diverse (sempre meno, tuttavia, a causa delle contaminazioni reciproche) sono la cultura orientale e quella occidentale, che possono influenzare lo sviluppo del cervello, notoriamente “plastico”. 

Partiamo da un dato numerico: il quoziente d’intelligenza. Se in occidente la media è 100, tra gli asiatici la media è 106, con una punta di 113 a Hong Kong. Una differenza in linea con il rendimento scolastico emerso dal progetto PISA (Programme for International Student Assessment), che coinvolge gli studenti di tutto il mondo: gli asiatici (e i cinesi in particolare) svettano sugli occidentali. Come mai? Una delle ragioni, almeno per la Cina, potrebbe essere la lingua. Uno studio recentemente pubblicato su PNAS (Proceedings of The National Academy of Sciences), che ha confrontato le aree del linguaggio nei cervelli cinesi e inglesi, ha mostrato che oltre alle già note regioni dell’emisfero sinistro, nei cervelli cinesi si illumina anche una regione dell’emisfero destro che noi occidentali utilizziamo per elaborare la musica. La ragione è ovvia: il cinese è una lingua tonale, e lo stesso suono può avere significati completamente diversi a seconda della tonalità con cui viene pronunciato. Che sia questo coinvolgimento cerebrale più ampio a rendere ragione, almeno in parte, della superiorità dei cervelli d’oriente? Nel dubbio sempre più occidentali (compresi Mark Zuckenberg, il fondatore di Facebook, e il principe William d’Inghilterra) stanno studiando il mandarino.

Prosa vs poesia. Restando nel campo del linguaggio, tra oriente e occidente sembra essere diverso anche il modo di comunicare. In occidente si parla molto e si dà importanza al contenuto (e si preferisce la prosa), in oriente si parla meno e si dà risalto alla forma (e si predilige la poesia). A partire dai testi sacri: basta pensare ai mantra tibetani, ripetuti all’infinito, poiché il loro suono è più importante del loro significato.
Secondo Christopher Bollas, tra i più noti psicoanalisti contemporanei e autore di La mente orientale  mentre il linguaggio occidentale è esplicito e chiaro, marcando le differenze e separando i confini tra chi parla e chi ascolta, quello orientale è implicito e ambiguo, denso di analogie e metafore, e tende a unire più che a dividere. Il che si riflette anche in una diversa concezione di sé e del mondo.
Lo ha dimostrato Joan Chiao, ricercatrice di origini cinesi alla Northwestern University (Illinois), nel 2009. C’è una regione del cervello subito dietro la fronte, nella corteccia prefrontale mediale, che si illumina quando una persona descrive se stessa, e che quindi si ritiene rappresenti il sé. Ebbene, nei volontari cinesi la stessa regione si illumina anche quando descrivono la loro madre: questo perché, suggerisce Chiao, gli occidentali tendono a vedersi come autonomi e unici, i cinesi come connessi a un insieme più ampio.

Io e gli altri. “Le epopee occidentali, a partire da quella sumerica di Gilgamesh, esaltano l’individuo che parte da solo alla conquista del mondo e che fa di tutto per lasciare una traccia di sé” nota Bollas. “Gli antichi testi cinesi e indiani sottolineano invece il dovere di vivere in armonia con gli altri e con la natura, e insistono sulla transitorietà e insignificanza della vita umana”. Gli occidentali subiscono il fascino del furfante, celebrano gli avventurieri, gli individui che sfidano la tradizione. Invece, secondo il confucianesimo e il buddismo, il compito dell’uomo non è distinguersi dal gruppo, bensì prendere le distanze dalle debolezze terrene per unirsi all’anima universale.
Queste differenze sono legate anche a ragioni storiche. “Mentre in occidente si affermava la cultura democratica della polis, e insieme le dispute dell’agorà, in Cina il potere si centralizzava, favorendo una cultura della sottomissione e un’etica della cooperazione”.

Distinguersi o uniformarsi. Le neuroscienze sembrano confermarlo. Nel 2009, la psicologa Nalini Ambady della Tufts University ha mostrato a un gruppo di volontari disegni di persone in posizione sottomessa (con la testa china e le spalle ricurve) o in posizione dominante (con lo sguardo diretto e le braccia incrociate). Il circuito dopaminergico della ricompensa si è attivato di più nel primo caso per gli asiatici, nel secondo per gli americani. A riprova di una differenza di valori: per i primi è buona cosa sottomettersi, per i secondi imporsi.
Richard Nisbett, psicologo sociale all’università del Michigan, ha dimostrato che, quando guardano una scena (per esempio un pesce che si muove nell’ambiente marino, o un elefante nella giungla), gli americani focalizzano lo sguardo sull’oggetto centrale, gli asiatici sull’ambiente circostante. È come se gli occidentali, nel loro rapporto con la realtà, usassero lo zoom, gli orientali il grandangolo. E che i primi siano legati ai valori dell’affermazione individuale e dell’indipendenza mentre i secondi a quelli dell’armonia con l’ambiente e dell’interdipendenza lo conferma anche un altro esperimento, in cui ad alcuni volontari è stato chiesto di scegliere tra 5 penne, 4 rosse e una verde: gli occidentali hanno scelto in maggioranza la verde, gli asiatici una delle penne rosse.

Occhi e bocca. C’è infine una differenza emersa più di recente, grazie alla diffusione delle emoticon. Masaki Yuki, giovane ricercatore all’Università di Hokkaido, racconta di aver impiegato parecchio tempo a capire il senso delle più diffuse “faccine” occidentali, quali 🙂 o 🙁. In Giappone la modalità di rappresentare un viso felice o triste era ben diversa, e cioè rispettivamente (^_^) e (;_;). Lo psicologo intuì che alla base c’era una differenza socioculturale: dimostrò infatti che per leggere le emozioni, i giapponesi guardano gli occhi, gli americani la bocca. Secondo Yuki, i giapponesi ridono raramente perché la cultura nipponica esalta la conformità, l’umiltà e la repressione delle emozioni, considerati tutti tratti importanti per promuovere le relazioni. Le emozioni trapelano comunque dagli occhi, più difficili da controllare. Invece un sorriso a 32 denti come quello di Julia Roberts, che tanto piace agli occidentali e che l’attrice ha assicurato per 35 milioni di dollari, per i giapponesi risulta innaturale e disturbante. Paese che vai…

Marta Erba

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