Quaranta anni fa, il 13 maggio 1978, veniva approvata la “legge Basaglia” che – in anticipo su tutto il mondo – aboliva i manicomi. Ripercorriamone la storia.
“Psichiatri, attenti: la vostra unica superiorità rispetto ai pazienti è la forza”. Lo aveva detto un gruppo di surrealisti francesi nel 1925, lo ribadiva, nel 1964, un giovane psichiatra veneziano durante il primo convegno di psichiatria sociale di Londra. Parole che suonavano provocatorie, così come il lavoro che presentava al convegno: La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione. Certo, allora nessuno dei presenti poteva immaginare che quel carismatico quarantenne di nome Franco Basaglia, da poco direttore dell’ospedale psichiatrico di Gorizia, sarebbe stato l’autore di una delle più grandi rivoluzioni della psichiatria: l’abolizione dei manicomi.
Il congresso avveniva in un momento chiave della storia della disciplina. “A Londra si scontravano due generazioni di psichiatri dalla visione diametralmente opposta” spiega Giuseppe Armocida, psichiatra e storico della medicina all’Università dell’Insubria. ”I più anziani, eredi del positivismo, erano convinti che la malattia mentale fosse un problema biologico; i più giovani, influenzati dalla filosofia esistenzialista, ritenevano che affondasse le sue radici nella società”.
Nosocomi per maniaci. Ma facciamo un passo indietro. Nel 1793 lo psichiatra francese Philippe Pinel era stato il primo a far emergere la “pazzia” dal clima di superstizione che l’avvolgeva, riconoscendo lo status di malati a persone che fino ad allora venivano cacciate dalla comunità o incatenate nelle carceri. Fu lui a sostenere l’utilità di isolare chi soffriva di schizofrenia o di forme gravi di depressione in apposite strutture, allo scopo di sottoporli a un “trattamento morale”. Erano così nati i manicomi, edifici ben separati dagli ospedali, che avevano finalità più di custodia che terapeutiche: i ricoverati infatti, nella stragrande maggioranza dei casi, vi venivano rinchiusi e non ne uscivano più.
Con l’avvento del positivismo, erano arrivate le prime cure. Gli psichiatri – che nel 1875 pretesero di chiamarsi “freniatri” (da frenòs, mente) per prendere le distanze dalla psicologia, disciplina che consideravano troppo metafisica – si dedicarono alla messa a punto di svariati trattamenti (per lo più inutili e dannosi) e alla classificazione dei disturbi. Era questa la cultura dominante nel secondo dopoguerra, gli anni in cui si formava Basaglia, quando gli internati erano circa un milione in europa, 110 mila in italia.
Tutti a casa! Ma qualcosa stava cambiando. Nel clima di rivolta degli anni Sessanta, che avrebbe portato alle contestazioni studentesche del ‘68, si era affermato il movimento dell’antipsichiatria, che i manicomi li voleva chiudere. Capofila erano, tra gli psichiatri, lo scozzese Ronald Laing, il sudafricano David Cooper e l’ungherese Thomas Szasz, influenzati a loro volta dal filosofo francese Michel Foucault e dal sociologo canadese Erving Goffman. La malattia mentale, sostenevano gli antipsichiatri, non esiste: è un mito, un’invenzione dei sistemi di potere. E la psichiatria è una forma illegittima di controllo sociale. Rinchiudere i cosiddetti “malati” era quindi sbagliatissimo, per non dire criminale: i loro problemi andavano risolti nelle famiglie e nel contesto sociale dove si erano manifestati.
A dare man forte alle loro teorie fu un film del 1949 con Olivia de Havilland, La fossa dei serpenti (che guadagnò anche la copertina del Time), in cui il manicomio veniva rappresentato come un inferno dantesco, brulicante di creature sporche e malvestite e risonante di grida, gemiti e risate disumane. Altrettanto inquietante era l’ambiente descritto in un romanzo di grande successo, Qualcuno volò sul nido del cuculo, pubblicato nel 1962 da un ex inserviente di un ospedale psichiatrico (Ken Kesey), da cui nel 1975 il regista Milos Forman trasse un famosissimo film.
“Gli antipsichiatri, però, non ce l’avevano solo con i manicomi fatiscenti, il cui livello di inciviltà era sotto gli occhi di tutti” precisa Armocida. “Se la prendevano soprattutto con le strutture più ‘umane’ e ben tenute, che apparentemente rispettavano la dignità dei malati, ma in realtà inducevano uno stato di indifferenza e di apatia”.
Un enorme letamaio. Tanto principesco non era certamente l’ospedale psichiatrico di Gorizia, di cui nel 1961 Franco Basaglia fu nominato direttore. Scioccato da quell’”enorme letamaio” in cui si aggiravano esseri in abiti rozzi e informi che gli ricordavano gli internati di un lager, gestiti da un personale privo di esperienza tecnica e umana, sentenziò: “Nessun trattamento può giovare a persone tenute in condizioni di sudditanze e cattività. Se a un uomo viene tolto tutto, è inevitabile che perda anche se stesso”.
Per Basaglia i malati non erano oggetti da controllare, ma soggetti con cui interagire. Cominciò quindi a eliminare i mezzi di contenzione, a riqualificare il personale, a restituire ai malati i loro oggetti personali, ma soprattutto ad “aprire le porte”. Con la moglie Franca Ongaro, sua fedele collaboratrice, costituì la prima comunità terapeutica, in cui i malati avevano voce in capitolo sulla loro terapia. Quando nel ’71 fu chiamato all’ospedale di Trieste, proseguì la sua opera di risanamento: istituì laboratori di pittura e teatro, fondò una cooperativa di lavoro (retribuito), sostituì gradualmente il manicomio con una rete territoriale collegata all’ospedale. E, per avvicinare i malati ai cittadini, li fece sfilare per le strade con Marco Cavallo, un gigantesco equino di cartapesta realizzato da loro, simbolo di libertà.
Occasione d’oro. Perché la sua non restasse un’iniziativa isolata, si impegnò in politica e nel 1973 fondò la società Psichiatria Democratica. L’occasione per il cambiamento decisivo venne nel 1978, un anno “rivoluzionario” per l’Italia (lo stesso della legge per l’interruzione di gravidanza e di quella che introduceva l’equo canone). I radicali avevano proposto un referendum per abolire la legge del 1904 che istituiva i manicomi: si rischiava così di creare un vuoto istituzionale, che avrebbe potuto lasciare migliaia di ricoverati, da un giorno all’altro, senza un posto dove stare. Cosicché il 13 maggio 1978 il Parlamento approvò in tutta fretta la legge 180, chiamata “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori“, che divenne subito nota come “legge Basaglia” per il ruolo svolto dallo psichiatra veneziano.
La norma disponeva la chiusura dei manicomi e vietava di aprirne di nuovi; al loro posto doveva essere creata una rete di centri ambulatoriali, mentre negli ospedali venivano istituiti piccoli servizi psichiatrici con un massimo di 15 letti e con degenze brevi. “In realtà Basaglia non era del tutto contento della legge: temeva che i reparti ospedalieri fossero comunque luoghi di reclusione e che l’emarginazione dei malati restasse immutata” ricorda Armocida. Ma non ebbe tempo per altre battaglie: nella primavera del 1980 si manifestarono i primi sintomi di un tumore al cervello, che il 29 agosto lo portò alla morte.
Oggi, a distanza di 40 anni, benché sia stata più volte oggetto di discussione e di tentativi di revisione, la legge Basaglia è ancora in vigore.
Marta Erba (articolo scritto per Focus Storia n.115)
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