Ci sconcertano ma al contempo ci rivelano la verità: ecco perché amiamo i paradossi. Ci avvicinano a quella che è la nostra vera natura, fatta di ambivalenze e contraddizioni.
L’uomo è un animale razionale? Rispetto a quella di Aristotele, desta meno problemi la definizione di Platone, che si limitava a dire che “l’uomo è un bipede implume”. Che l’agire dell’uomo sia improntato alla razionalità è invece un’affermazione ben più azzardata, messa in discussione da generazioni di psicologi, e ultimamente anche da neuroscienziati. I tipici comportamenti umani sembrano troppo spesso pieni di contraddizioni, e più vicini ai paradossi (intesi come coesistenza di realtà opposte e apparentemente inconciliabili) che alla logica.
Secondo Anna Freud (figlia di Sigmund), la razionalità è più spesso usata per giustificare i propri comportamenti (per nulla razionali) piuttosto che per guidarli: la psicoanalista sosteneva infatti che la “razionalizzazione” fosse un meccanismo di difesa evoluto, adottato per renderci accettabili atteggiamenti, idee e sentimenti di cui non siamo in grado di riconoscere (o non vogliamo accettare) le reali motivazioni. Le neuroscienze (dal fenomeno dello split brain alle più recenti indagini sulla coscienza) hanno in parte confermato questa teoria. Insomma, la razionalità con il comportamento umano c’entra poco. Per parafrasare Aristotele, appare più corretto affermare che “l’uomo è un animale paradossale”.
Che cos’è il paradosso. Il termine “paradosso” deriva dal greco parà (contro) e doxa (opinione): in origine indicava quindi un’affermazione che sfida un’opinione comune, perché appare contraria a ciò che è ritenuto vero. Nel Seicento, per esempio, il moto della Terra intorno al Sole veniva definito il “paradosso di Copernico”, poiché appariva inaccettabile, nonostante le prove scientifiche orientassero in quella direzione. Il paradosso rivela perciò un contrasto tra le credenze più diffuse e una situazione per cui queste credenze si rivelano inappropriate. Ha quindi una duplice natura: da una parte è destabilizzante, perché mina le convinzioni su cui fondiamo il nostro modello di realtà, rivelandoci i limiti degli strumenti intellettuali che utilizziamo per spiegare le cose, e in particolare della logica. Ma contemporaneamente è anche uno stimolo alla conoscenza: smascherando le contraddizioni e le debolezze dei nostri ragionamenti può spianare la strada a grandi progressi intellettuali. Come scriveva Soren Kierkegaard, infatti, “Il paradosso è la sorgente della passione del pensatore, e il pensatore senza un paradosso è come un amante senza sentimento: misera mediocrità”.
Franca D’Agostini, docente di filosofia contemporanea all’Università di Torino e autrice di Paradossi per l’editore Carocci, definisce il paradosso come “un argomento, una domanda, una opinione, o anche una situazione che genera una contraddizione resistente, di cui non riusciamo a disfarci”. A partire dai primi anni ottanta, fa notare la filosofa, la nozione di paradosso è cambiata: non è più un’anomalia da rifuggire perché mette in crisi la razionalità, bensì un oggetto attraente, da esaminare con interesse allo scopo di scoprire qualcosa di nuovo e di risolvere problemi complessi. E quale problema più complesso della natura umana?
Realtà quotidiana. Sebbene i paradossi più noti siano giochi intellettuali astratti utilizzati dai filosofi per smascherare i limiti della logica, situazioni ed elementi paradossali fanno parte della nostra esperienza quotidiana ben più di quanto pensiamo. Per esempio, diventiamo prigionieri di un comando paradossale ogni volta che, per affrontare una persona o una situazione che ci intimorisce, qualcuno ci esorta con la frase: “sii spontaneo!”. Una simile richiesta rende di fatto impossibile ciò che viene richiesto (un comportamento spontaneo, per essere tale, deve verificarsi appunto “spontaneamente”). Allo stesso modo è impossibile, dal punto di vista logico, obbedire all’ordine impartito da un fotografo di “assumere una posa naturale”: se deve essere naturale non può, per definizione, essere assunta di proposito.
Un’altra situazione paradossale da molti sperimentata è quella di “sforzarsi di non pensare” a qualcosa che ci tormenta. Più ci si sforza, più si finisce col concentrarsi proprio su ciò di cui ci si vorrebbe liberare. Un po’ come in quel classico esperimento psicologico in cui si impartisce l’ordine di “Non pensare a un orso polare”: un comando del genere ottiene l’effetto paradosso di indurre l’interlocutore a pensare proprio a ciò che non dovrebbe pensare.
A sottolineare la presenza e le conseguenze dei paradossi nelle relazioni umane fu per primo l’antropologo e psicologo Gregory Bateson con la teoria del “doppio legame” (double bind, 1956), in seguito proseguita e approfondita dalla Scuola di Palo Alto. Secondo Bateson, ogni volta che in una relazione emotivamente rilevante (per esempio quella tra una madre e un figlio, ma anche tra due innamorati) si verifica un’incongruenza tra ciò che viene detto a parole e ciò che viene espresso in altro modo (con i gesti, i comportamenti, il tono di voce) diventa impossibile “decidere” le regole della relazione. Chi subisce questo comportamento, infatti, non è in grado di stabilire quale dei due messaggi contraddittori è quello corretto, né è in grado (per paura, incapacità, inconsapevolezza…) di smascherare l’incongruenza. Questo messaggio paradossale, che implica due contenuti opposti e inconciliabili, finisce (paradossalmente) per potenziare la relazione, dal momento che la irrigidisce e la blocca. Bateson riporta l’esempio di una madre che si ritrae al tentativo di abbracciarla da parte del figlio, dicendogli al contempo “non avere paura di mostrare i tuoi sentimenti”: in questo modo provoca l’allontanamento del figlio, ma nel contempo ne attribuisce a lui la responsabilità. Bateson sosteneva che l’esposizione cronica a situazioni di doppio legame fosse un fattore che favorisce la schizofrenia, poiché impedisce un rapporto coerente con la realtà, inducendo comportamenti diffidenti e paranoici.
La scuola di Palo Alto. La ricerca di Bateson sui paradossi della comunicazione è stata proseguita dalla scuola di Palo Alto. Scrive Jay Haley, psicoterapeuta e allievo di Bateson: “Quando due persone tentano di controllare il tipo di relazione limitando il comportamento l’uno dell’altro, è evidente che la persona che pone le direttive paradossali vince. L’altra persona non può definire la relazione ubbidendo agli ordini o rifiutando di ubbidire, perché gli si chiede di fare le due cose contemporaneamente”. Haley aveva analizzato soprattutto le comunicazioni paradossali adottate dall’ipnoteraputa Milton Erickson (considerato il fondatore dell’ipnosi moderna) per “addormentare”i suoi pazienti più resistenti. Un esempio: quando un paziente rifiutava di sottoporsi all’ipnosi, Erickson ne incoraggiava la resistenza con frasi del tipo “mi fa piacere che si oppone al mio trattamento, ho proprio bisogno di questo per far sì che funzioni”. In genere il paziente ne risultava confuso e disorientato, diventando così facilmente ipnotizzabile. “Il paradosso è per sua natura irrisolvibile” deduceva Haley “e tale irrisolvibilità arriva a interrompere l’attività pianificatrice del soggetto che lascia il controllo della relazione nelle mani dell’ipnotista”.
Gli studi della scuola di Palo Alto hanno portato gradualmente a riconoscere la natura paradossale di molti disturbi, e contemporanemente a individuare interventi paradossali per sbloccarli. La maggior parte delle nevrosi, infatti, si fonda su un paradosso. Il disturbo da attacchi di panico è basato sulla “paura della paura”: è proprio il terrore di incorrere nella situazione angosciante del panico a provocarlo. Natura paradossale ha anche un’altra patologia diffusissima ai giorni nostri, ovvero il disturbo ossessivo-compulsivo: chi ne è affetto mette in atto una serie di rituali con l’illusione di controllare la realtà, ma è proprio la progressiva esasperazione di questi rituali a fargli “perdere il controllo”. In entrambi i casi, per interrompere il meccanismo paradossale, sono state ideate manovre altrettanto paradossali, che innescano una sorta di “doppio legame”, ma in questo caso con effetti positivi.
La prescrizione del sintomo. Tra gli interventi più efficaci c’è la “prescrizione del sintomo”. Adottata per la prima volta da Erickson, è oggi una delle tecniche cardine della psicoterapia strategica, descritta da Paul Watzlawick (esponente principale della scuola di Palo Alto) e perfezionata dallo psicoterapeuta aretino Giorgio Nardone. La prescizione, a chi soffre di attacchi di panico, della worst fantasy (“Tutti i giorni, alla stessa ora, chiuditi in una stanza, punta la sveglia dopo mezz’ora, e per tutto questo tempo pensa alle cose peggiori che riesci a immaginare fino a indurti un attacco di panico… quando suona la sveglia smetti, e ritorna alle tue normali attività”) così come la prescrizione, a chi soffre di disturbo ossessivo compulsivo, dei rituali (“Se senti il bisogno impellente di lavarti le mani puoi scegliere: o non vai a farlo, oppure lo fai 10 volte, esattamente dieci, non una di più non una di meno, rispetto a quello che avresti fatto) blocca la natura spontanea e incontrollabile dei sintomi, riducendone – quasi per magia – il potere. In pratica con questa tecnica, il terapeuta prescrive al paziente di fare volontariamente ciò che egli sente di fare spontaneamente: indirettamente lo sollecita a sciogliere la sua dipendenza dal sintomo e a riprendere mano la sua esistenza. Non per niente Nardone parla esplicitamente di “logica della contraddizione” (facendo il verso all’aristotelico “principio di non contraddizione”: A non può essere anche non-A), come se il contraddirsi umano abbia una sua logica naturale, che va compresa e “sfruttata”. Infatti durante le sedute, oltre alla prescrizione del sintomo, fa largo uso di espressioni paradossali allo scopo di catturare i pazienti e di sbloccarne i sintomi (“Continua pure a mentirmi, così capirò meglio le tue verità” oppure “Se te lo concedi puoi rinunciarvi, se non te lo concedi diventa irrinunciabile”).
Alla stessa stregua Matteo Rampin, psichiatra e psicoterapeuta veneto, in Il grano e la zizzania (Ponte alle Grazie) suggerisce una serie di risposte paradossali per sbloccare certi atteggiamenti apparentemente razionali, mettendo in evidenza come il linguaggio possa essere in grado di cambiare la realtà. Qualche esempio: a chi dice con aria affranta e disincantata “non credo più a niente” bisognerebbe replicare “lo crede davvero?” (classico paradosso logico: se lo crede, non è vero che non crede più a niente). A chi dichiara di “essere un insicuro” si può domandare: “ne è proprio sicuro?”. E a chi sostiene di “fallire in tutto ciò che fa” si può ribattere “Come riesce, infallibilmente, a fallire?”
Verità eterne. La scoperta dell’efficacia del paradosso nella comunicazione non è però recente. La maggior parte delle figure carismatiche del passato, in particolare coloro i cui insegnamenti hanno finito con il condizionare interi popoli, li utilizzava già ampiamente. Gesù Cristo invitava, di fronte allo schiaffo del nemico, a “porgere l’altra guancia”. Un’affermazione che non è tanto un incitamento alla non-violenza (per quella basterebbe non fare alcunché) ma una precisa strategia comportamentale che “blocca” il nemico, annullandone, per effetto paradosso, l’aggressività, e quindi il potenziale pericolo. E’ quella che Haley definisce “strategia della resa” o “tecnica della debolezza”: arrendendosi, di fatto, si vince.
Si esprimevano attraverso paradossi anche i grandi pensatori e filosofi orientali come Buddha (“Non c’è niente di costante tranne il cambiamento”), Confucio (“La vera conoscenza sta nel conoscere l’estensione della propria ignoranza”, che fa eco al socratico “sapere di non sapere”) o Laozi (“Per guidare gli altri, cammina alle loro spalle”). La maggior naturalezza con cui le filosofie e le religioni orientali (in particolare il buddismo zen) si sono avvicinate al paradosso potrebbe essere legata allo yin e dello yang, il concetto di unità e contemporaneità degli opposti alla base del taoismo e integrato nel confucianesimo: il mondo si regge su due principi opposti, ciascuna cosa contiene il seme del proprio opposto e l’uno non può stare senza l’altro. Le contraddizioni, quindi, sono perfettamente naturali, nonché inevitabili.
Insomma: la logica vero-falso va in frantumi quando viene applicata alla complessità della natura umana. Ecco perché molte delle “perle di saggezza” tramandate nel corso dei secoli (vedi box paradossi di saggezza) sono contrarie alla logica eppure (o forse proprio per questo) vengono percepite come particolarmente “vere”. Hanno il sapore dell’intuizione, del colpo di genio. Forse anche perché, come scriveva Francis Scott Fitzgerald, “La prova di un’intelligenza superiore è che sia capace di tenere a mente due idee opposte nello stesso momento e che continui comunque a funzionare”.
Vince chi fugge. C’è poi un tipo di relazione umana in cui i meccanismi paradossali risultano particolarmente evidenti: quella amorosa. L’amore è un sentimento in cui coesistono felicità e angoscia, piacere e dolore, sincerità e menzogna, amore e odio. Nell’amore possono coesistere aspetti che con l’amore hanno poco a che fare (o che ne sono addirittura l’opposto) come il desiderio di possesso, l’esercizio del controllo, fino alla vera e propria violenza. Ed è esperienza comune innamorarsi perdutamente di persone che finiscono con l’essere la fonte della propria infelicità. In una scena memorabile del film Blues Brothers, la ex fidanzata di John Belushi lo rincorre per ucciderlo: eppure, di fronte alle sue improbabili scuse per averla abbandonata all’altare (tra le altre, l’invasione delle cavallette) e alla visione del suo sguardo non può fare a meno di abbassare le armi e ritrovare il sentimento perduto. Un atteggiamento frequente e ben descritto da Shakespeare “Quando il mio amore giura di dire la verità, io le credo, anche se so che mente”.
Per non parlare della coesistenza di sentimenti opposti come l’amore e l’odio, nel momento in cui le fiamme del sentimento divampano con la massima passione. Già Euripide, nel V secolo A. C , affermava che “Il peggiore odio, il meno curabile, è quello che ha preso il posto di un amore profondo”. Emblema dei paradossi amorosi è anche Teorema, canzone di Marco Ferradini molto popolare qualche anno fa. Vi si afferma che se a una donna mandi rose e poesie e la fai sempre sentire importante stai sicuro che ti lascerà. Per converso, se la tratti male, lasci che ti aspetti per ore, fai sentire che è poco importante, allora sì vedrai che ti amerà. E per quanto il cantautore arrivi a concludere che tutto ciò non è vero perché “non esistono leggi in amore”, in tantissimi giurano di aver sperimentato più volte nella vita il “teorema” espresso nelle prime due strofe. Sintetizzabile nel celebre aforisma (paradossale), attribuito niente meno che a Napoleone, “In amore vince chi fugge”.
Vedi anche:
Paradossi famosi
Aforismi paradossali
Battute paradossali
Lo zen e l’arte del paradosso
PARADOSSO.
DORMIRE IN UNO SPAZIO RISTRETTO SUL LETTO A SCOMPARSA STRINGERSI PER INCORAGGIARE I TUOI SOGNI ED I MIEI TORMENTI A FONDERSI.